«Ho conosciuto molti santi»
Il suo passo, nonostante qualche difficoltà, è più che mai deciso. La sua figura, semplice e allo stesso tempo solenne, dice molto di lui. Lunga barba e capelli bianchi lasciati crescere a sfiorare le spalle: la figura di questo frate affascina, tanto da poterla paragonare a un personaggio degli affreschi di Michelangelo.
Fra Giuseppe Ungaro, 99 anni, vive da 47 nella comunità della Basilica del Santo. Vi era già stato come novizio negli anni 1936-37. È nato a Padova nel 1919 ed è stato battezzato nel santuario antoniano dell’Arcella. A soli 12 anni, nel 1931, entra nel seminario dei francescani conventuali di Camposampiero. Seguono gli studi classici e quelli teologici (cum laude) fino a giungere, nel 1944, già professo solenne, all’ordinazione sacerdotale.
Gli occhi, vividi e attenti, sono pronti a cogliere sguardi e parole. Una memoria infallibile (oltre quattro ore al giorno dedicate allo studio) e un fisico altrettanto forte: «Negli anni ho camminato molto – dice – e ho scalato molte montagne. Ringrazio il Signore per quanto continua a donarmi».
Le sue giornate sono particolarmente intense: sveglia alle 3.30 del mattino, poi in Basilica per la preghiera e l’adorazione che si conclude con la Messa conventuale. Seguono gli incontri con le famiglie in difficoltà, con le persone uscite di prigione (è anche assistente in carcere) e con quanti hanno bisogno di un consiglio e un aiuto. «Perché ogni uomo e donna ha la propria dignità. E va difesa. E in tutti vi è la presenza di Gesù».
«Personalmente seguo ogni settimana una ventina di famiglie – informa –. Le incontro nelle loro case: ascolto, prego e mangio con loro. Ma poi ci sono tante altre cose da fare: lo studio, l’incontro con chi collabora alle nostre iniziative, la raccolta delle offerte».
Una vita tutta improntata al Vangelo e alla carità, seguendo la strada segnata dai santi Francesco e Antonio. E di santi, fra Giuseppe, ne ha conosciuti anche personalmente. Tre appartengono alla famiglia francescana: Massimiliano Kolbe, Pio da Pietrelcina e Leopoldo Mandic´.
Italia, sua terra di missione
Fra Ungaro prima di risiedere a Padova ha organizzato, per ben trentadue anni, le missioni popolari promosse dai francescani conventuali. È stato parroco per ventisei anni: prima a Sabaudia e Borgo Vodice (Latina) e poi ai Frari (Venezia). Anni, quelli di Sabaudia, durissimi, a cavallo della Seconda guerra mondiale. In quel difficile periodo, fra Giuseppe è stato uno dei promotori della grande bonifica del territorio.
Numerosi i riconoscimenti attribuitigli, tra i quali una medaglia d’oro. Ed è durante la sua permanenza a Sabaudia che ha conosciuto padre Pio, il frate con le stigmate. «Mi recavo spesso a San Giovanni Rotondo per confessarmi da lui – spiega –. Alcune volte ho dormito nel convento dei cappuccini e ho potuto incontrarlo».
«Il mio desiderio – aggiunge – era quello di partire in missione. Ma fu proprio lui, durante una confessione, a predire che ciò non sarebbe avvenuto: “Tu non andrai mai in missione”. Subito dopo, infatti, scoppiò la guerra. Mi ripeteva spesso: “Peppì, ad impossibilia nemo tenetur (nessuno è tenuto a fare cose impossibili)”.
«Ancor oggi sento riecheggiare quelle sue parole. Un giorno entrai nella sua stanza, gli strinsi le mani segnate dalle stigmate e gli chiesi se gli facevo male. Lui, quasi a proteggerle, mi rispose con il suo caratteristico tono di voce: “Peppì, Dio non mi ha mica dato queste stigmate per divertimento”».
Con padre Massimiliano Kolbe, conventuale martirizzato ad Auschwitz nel 1941, fra Giuseppe ha avuto più di un incontro. «Era un uomo mite, umile, molto silenzioso. Mi sono confessato da lui più volte – confida –. Era di una bontà infinita. Viveva lo spirito francescano nella sua totale radicalità. Non faceva mai domande indiscrete. Non sgridava. Incoraggiava a superare le proprie mancanze attraverso l’impegno e la preghiera».
Fra Ungaro confida anche un voto fatto su invito di padre Kolbe. «Lo chiedeva ai novizi ed era quello di non fumare». Il francescano mostra il cingolo con i tre nodi: «In questo cingolo c’è anche questo voto. Una promessa che ho mantenuto».
Di padre Leopoldo, cappuccino del convento padovano di Santa Croce, ricorda la grande umiltà, la semplicità, ma anche l’umanità e la saggezza d’animo. Nel 1938 gli fu assegnato l’incarico di confessore «ordinario» dei minori conventuali.
«Ogni mercoledì veniva in Basilica a confessare i frati al Santo. Per prima cosa si recava a pregare alla tomba di sant’Antonio e vi ritornava al termine delle confessioni, affidando al Santo preoccupazioni, promesse e speranze. Era esilissimo, alto un metro e 35 centimetri. Quando qualcuno si offriva di accompagnarlo in automobile, scendeva prima di arrivare a destinazione. Si vergognava di questo privilegio. Ed era proprio in questo tratto di strada a piedi – racconta fra Giuseppe – che i ragazzini lo prendevano in giro e gli infilavano alcuni sassi dentro il cappuccio. Tutto questo lo faceva un po’ soffrire».
«Aveva un cuore grande – ricorda fra Giuseppe –. Per la sua comprensione verso le debolezze dell’uomo era considerato un confessore di manica larga. Un giorno confessò un fedele al quale un penitenziere della Basilica aveva negato l’assoluzione. Lui lo accolse e ne perdonò i peccati. E a quel frate della Basilica che negò l’assoluzione disse: “Lei, padre, confessa con la sua coscienza; io con la mia”».
Tra gli amici santi di fra Ungaro ci sono anche alcuni Papi: papa Giovanni XXIII, quand’era patriarca di Venezia; Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Di loro, fra Giuseppe ha un ricordo nitido: «Con l’allora cardinale Angelo Roncalli, patriarca di Venezia, ci conoscevamo bene. Spesso veniva a pranzo nel nostro convento veneziano dei Frari».
Quando parla di Paolo VI rivive, invece, gli incontri con il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, durante le missioni milanesi. Di Giovanni Paolo II ricorda alcune celebrazioni in San Pietro e l’incontro in occasione della storica visita a Padova, il 12 settembre 1982. E ancora, l’amicizia con papa Luciani, Giovanni Paolo I, risalente ai tempi in cui era vescovo di Vittorio Veneto. «Ricordo il giorno in cui, quand’era patriarca di Venezia, venne a farmi visita al Santo. Stava partendo per Roma, in vista del conclave. Abbracciai il futuro Papa!».
Doveva andare in missione fra Ungaro, ma la volontà divina l’ha posto in mezzo ai poveri e ai sofferenti delle nostre periferie. Tanto da fargli fondare a Padova, nel 1972, l’«Armadio del povero».
«In tutti questi anni abbiamo aiutato decine di migliaia di famiglie. L’anno scorso ne abbiamo soccorse 1.600, originarie di trenta Paesi. Molti anche gli italiani». In una grande sala di via Gradenigo 10, sono custoditi vestiti, stoviglie, utensili, materassi e calzature. La distribuzione avviene il mercoledì e il venerdì, dalle 8 alle 10.
«Nel Vangelo – osserva il francescano – Gesù ci ricorda che Lui è la porta e bisogna passare attraverso di Lui per vivere una vita piena. Anche i santi sono delle porte per arrivare a Dio. Con sant’Antonio, siamo amici da sempre. Direi che “lavoriamo” insieme. Ogni mattina mi reco alla sua tomba. Gli presento le mie intenzioni, le attività della giornata, ma soprattutto il grido degli ultimi. Gli dico: “Guidami”. E lui lo fa. Sempre».
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