Umili, non umiliati
Umiltà è una parola fondamentale dell’umanesimo occidentale, al centro di ogni processo educativo, che è presente in ogni persona che stimiamo davvero. Ma, come tutte le parole grandi della vita, anche «umiltà» è ambivalente, perché c’è umiltà buona e umiltà cattiva.
Non possiamo dimenticare che, nei secoli passati, in nome del valore dell’umiltà sono state umiliate tante persone, tante donne, tanti poveri. Persone umiliate dai potenti, e magari veniva loro raccomandato di coltivare l’umiltà nella loro umiliazione. Questo uso dell’umiltà e dell’umiliazione è tutt’altro che virtù, e ha generato tanto dolore e ha fatto sfiorire troppe persone. Non è infatti questa umiltà-umiliazione quella che ritroviamo nella Bibbia e nei vangeli, dove invece gli umili vengono «innalzati» (Magnificat), non vengono lasciati umiliati. Nell’umanesimo del Magnificat ciò che si loda è il riscatto di chi è stato umiliato e non lasciato nella sua condizione di vittima.
La sola umiliazione buona è quella che ci arriva dalla vita senza che nessuno la voglia. Si preparano i bambini e i giovani all’umiltà buona mettendoli in contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con la poesia, con le fiabe, portandoli con noi ai funerali, facendo loro capire che può esistere un cielo più alto del tetto di casa. E poi un giorno alzare gli occhi e sentire il cielo «infinito e immortale».
Allora la prima espressione di umiltà buona è quella che vive chi cerca di riscattare chi è stato umiliato. È una virtù attiva, che non pensa tanto a coltivare la propria umiltà ma a liberare chi è umiliato. L’umiltà più alta di Gesù è quella che ha vissuto sulla croce, nella cacciata dei mercanti dal tempio dove ha liberato Dio dalla logica retributiva che lo aveva umiliato, quando ha salvato la donna dalla lapidazione. È quella del padre che rialza il figliol prodigo dalla sua umiliazione, quell’angelo che consola Agar cacciata via nel deserto dalla sua padrona (Sara), quella di YHWH che ascolta il pianto strozzato di Anna e la innalza donandole un figlio (Samuele).
L’umiltà, l’humilitas più importante è quella che sperimenta chi riesce a risollevare il suo volto dalla terra, dall’humus, e guardare di nuovo avanti e in alto con dignità. L’umiltà che salva non consiste nell’abbassare noi stessi (dietro gli auto-abbassamenti si nasconde spesso molto orgoglio), ma nell’innalzare gli altri che sono stati abbassati.
Nelle organizzazioni e nella vita in comune, l’umiltà buona si riconosce dai suoi segni.Il primo è la gratitudine sincera nei confronti della vita, degli altri, dei propri genitori. L’umile è sempre grato. E solo l’umile sa pregare. Un secondo segnale della sua presenza è la capacità di dire «scusa» e «perdonami».
Tutti i corsi sulla leadership aziendale dovrebbero iniziare con un pre-corso sull’umiltà. Pronunciare «scusa» e «perdonami» è sempre difficile nelle imprese. È difficile dire «scusa» a un nostro responsabile. Ma è ancora più difficile dirlo a un nostro dipendente. L’umiltà vera educa alla sequela. Un responsabile che non abbia imparato la sequela – di ogni altro, dei poveri, della parte migliore di sé – non sarà mai una buona guida (leader) di altri. Oggi l’impresa e la politica soffrono per carenza di responsabili e leader, perché abbiamo dimenticato la cultura della buona umiltà.
Nell’umiltà si ritrova una legge universale che ritroviamo al cuore di molte virtù e di altre cose grandi della vita: si diventa umili veramente senza accorgersene. L’umiltà arriva mentre cerchiamo altro: la giustizia, la verità, l’onestà. Non può essere programmata, ma può essere desiderata, stimata, attesa. L’umiltà è una virtù radicalmente relazionale: sono solo gli altri che possono e devono riconoscere la nostra umiltà, e noi riconoscere la loro, in un gioco di reciprocità tra i più sublimi «sotto il sole».