Accompagnare a vivere e a morire
Non so se ci avete fatto caso, ma quello della morte è un argomento tabù nei discorsi con i bambini, in famiglia. Non se ne parla. Come, quando ero piccolo io, non si parlava di sesso. Invece allora era abbastanza normale che un bambino assistesse, insieme con i genitori, alla morte del nonno. Forse perché il senso della morte, come quello della vita (le due cose sono inscindibili), era più familiare agli uomini e alle donne, anche se a malapena sapevano leggere e scrivere. Interrogarsi sul significato della vita e della morte è un’attitudine universale, che scavalca i confini delle culture e delle religioni. E spesso sono proprio i bambini, molto più «diretti» e senza pre-giudizi di noi, a ricordarcelo: «Mamma, perché le vacanze finiscono? Perché tutto finisce? Perché si nasce se poi si deve morire?». Ma spesso gli adulti, spiazzati, cambiano discorso.
La cultura dominante oscilla tra il considerare la vita come un segmento di tempo sospeso tra due nulla e il considerare la morte come un «incidente di percorso» che – come tale – si può e si deve correggere. Talora la scienza, nel suo delirio di onnipotenza, tenta di convincerci che eliminerà la morte. Da qui l’ossessione di conservare la giovinezza del corpo, che spesso è inversamente proporzionale alla cura della giovinezza dello spirito. Noi, uomini del terzo millennio, rimuoviamo il fatto di essere creature finite e ci troviamo sprovveduti di fronte al dolore della malattia e della morte. Invece la vita ci offre innumerevoli prove che la parola dolore non è sinonimo di infelicità, quando il dolore, anche pesantissimo, è abbracciato dall’amore. Io l’ho sperimentato andando a trovare gli ammalati nelle loro case durante i sei anni della Visita pastorale nel patriarcato di Venezia. In particolare ho stampati nella memoria gli occhi luminosi, pieni di gratitudine e, mi verrebbe da dire, di allegria, di un padre poco più che quarantenne, immobilizzato da una Sla molto avanzata, la cui parola e i cui gesti erano diventati quelli dei suoi due ragazzini poco più che decenni. Come non dimenticherò più la risposta che mi diede il padre di un uomo ormai adulto portatore di una gravissima disabilità al mio goffo tentativo di consolarlo ricordandogli che il Signore lo avrebbe ricompensato del suo sacrificio: «Patriarca, ma il Signore mi ha già ricompensato! Mio figlio è il mio tesoro, mi ha insegnato l’amore». Mi sono sentito un verme…
Per i cristiani – e, almeno come presentimento, per tutti gli uomini religiosi – il giorno della morte è il dies natalis. Segna una nascita e non la fine. Ma, come la nascita, anche la morte ha bisogno di un accompagnamento amorevole. Come nessun neonato può sopravvivere senza la cura di chi gli vuole bene, così nessun ammalato o moribondo deve arrivare sulla soglia della morte da solo. La grande testimonianza di Madre Teresa di Calcutta è lì a dimostrarcelo. Ogni uomo, a qualunque età e in qualunque situazione, viene creato (il verbo è al presente!) a immagine di Dio. La sua vita è un bene inalienabile: la Chiesa ne è custode forte, inflessibile. E non cessa di proclamarlo con forza: nessuna persona può mai essere ridotta a «cosa», pena la gravissima deriva di una società di cui i totalitarismi del XX secolo ci hanno dato tragica documentazione («Ciò che non è persona in fondo non è nulla», Nicolás Gómez Dávila). Per questo la Chiesa è sempre a favore della vita. L’elementare principio del favor vitae è sempre ragionevole. Finché esiste il minimo dubbio che una persona sia viva, bisogna essere in favore della vita. Sono ben consapevole della drammaticità di tante situazioni e di quale grande sacrificio talora richiedono, ma non c’è nulla che possa scalfire il diamante di questo atteggiamento a difesa di ogni singolo uomo e, a ben vedere, di tutta la società.