Albania, athleta Christi
«Le nuvole sono appese al cielo, inchiodate come quadri alla parete». Lo scrisse Joseph Roth, a proposito del cielo d’Albania, nel lontano 1927. Era appena arrivato nel Paese delle aquile per una serie di reportage per la «Frankfurter Zeitung» (ora raccolti nel volume Viaggio in Albania pubblicato da Passigli editori, 2014). Io arrivo qui quasi un secolo dopo, alle due del pomeriggio di una giornata di luglio. Ma l’immagine che mi accoglie è la stessa: le poche nuvole si stagliano immobili su un cielo così terso che pare di poterle toccare con un dito. Potenza della letteratura, certo, ma anche forza di un Paese che sembra aver attraversato indenne uno dei secoli più drammatici della storia umana.
Tirana, la capitale, è circondata dalle sagome blu acciaio dei monti che, proteggendola dai venti freddi del Nord, ne fanno un’isola felice dal punto di vista climatico. L’aria infatti è calda e non c’è traccia di afa. Spira anzi una leggera brezza: «Arriva da Durazzo» mi dicono. Lì c’è il mare. Un tratto di costa sabbiosa oggi frequentato soprattutto dai kosovari. «Gli albanesi preferiscono il Sud» mi spiegano ancora, dove la costa diventa alta e rocciosa e il fondale più profondo. Il settore turistico qui in Albania è quello con il più forte potenziale di sviluppo: tra il 2011 e il 2012 è cresciuto del 25 per cento. Ad attirare sono in particolare i siti di interesse storico: Argirocastro, Scutari, per citarne solo due. Ma anche l’ospitalità della gente: «calorosa» (è ancora Roth a parlare). Soprattutto nei confronti degli italiani.
Gli albanesi amano l’Italia di un amore commovente. E la amano non riamati. «Cosa sanno in genere gli italiani dell’Albania? A sentire i discorsi della gente molto poco. (…) Noi facciamo gli accattoni con la Francia, con l’Inghilterra, senza accorgerci che abbiamo un vicino che ci ama, che crede in noi, che parla la nostra lingua, che vorrebbe andare a fondo alle sue immense capacità con la nostra collaborazione» scriveva Dacia Maraini nel 2002 sul «Corriere della Sera» (Gli albanesi ci guardano, 30 ottobre). Sono passati oltre dieci anni, ma la situazione non è cambiata di molto. Alla vigilia della partenza per l’Albania, sugli scaffali di una delle librerie più grandi della mia città (una nota catena), sono riuscita a trovare un solo libro che parlasse del Paese. Non una guida turistica e neppure un romanzo. Eppure gli autori di rilievo non mancano. Uno per tutti: Ismail Kadaré, più volte candidato al Nobel per la letteratura.
L’Albania è terra dura, aspra. Terra «di una bellezza triste e desolata», la definisce Roth. Crocevia di popoli che nei secoli l’hanno attraversata, dominata, dilaniata. A partire dagli Ottomani, che dal XIV secolo agli inizi del XX ne hanno occupato il suolo. Ma fatta schiava anche dal suo stesso popolo. Tra il 1946 e il 1985 (anno di morte del dittatore Enver Hoxha) è stata infatti schiacciata da uno dei più duri e tirannici regimi comunisti che si ricordino, che ha portato alla sistematica eliminazione di migliaia di oppositori. Anni in cui il cuore stesso dell’Albania è stato messo a tacere: nel 1967, Hoxha fece inserire nella Costituzione un articolo che dichiarava l’Albania «Stato ateo». Unico caso al mondo. Da allora, e fino al 1991, ogni pratica religiosa, pubblica o privata, venne considerata un crimine contro lo Stato. Chi si fosse azzardato a celebrare una Messa avrebbe rischiato la fucilazione.
Sulla strada che dall’aeroporto mi conduce a Tirana, vedo un susseguirsi di edifici in costruzione o appena terminati. Il paesaggio verdissimo, e all’apparenza incontaminato, man mano che ci si avvicina al centro città lascia spazio alle attività commerciali e agli edifici abitativi, che in periferia sono bassi, curati, ma che poi, chilometro dopo chilometro, si trasformano in anonimi palazzoni, eredità dei tempi del regime. La maggior parte di essi ha i colori dell’arcobaleno: indaco, viola, giallo, verde… A ridipingerli così è stato il sindaco di Tirana, Edi Rama, un artista che lo scorso settembre, dopo tre mandati da primo cittadino della capitale, è stato eletto premier. Il traffico è lo stesso di una qualsiasi cittadina occidentale, ma caotico come quello di una metropoli; il suono dei clacson non dà tregua e l’aria è ammorbata dai tubi di scappamento delle vecchie auto, ancora numerose pur mescolate ai molti suv di ultima generazione. Anche in centro le gru dei palazzi in costruzione la fanno da padrone. Mi colpiscono alcuni lussuosi edifici: alberghi, banche, centri commerciali. Varco l’ingresso di uno di questi, a due passi dalla piazza principale di Tirana: tra i negozi e le catene di supermercati italiani, si aggirano solo poche persone. Mi dicono che lo stipendio mensile normale (non ci sono dati certi sugli stipendi medi) di un albanese si aggira sui 200 euro, mentre la merce nei negozi è venduta a un terzo del prezzo praticato in Italia. Comunque troppo. E allora molte persone preferiscono ancora fare compere nei mercatini che inondano i marciapiedi appena fuori dal centro: bancarelle di frutta e verdura, o semplici lenzuola stese a terra e ricoperte di vestiti e scarpe usati o sigarette, acquistabili anche singolarmente al prezzo di 5 lek l’una (il lek è la moneta locale; ce ne vogliono circa 130 per un euro).
Prima di partire dall’Italia avevo dato uno sguardo ai numeri: l’Albania è grande poco più della Sicilia e conta circa 2 milioni e 800 mila abitanti (a Tirana ne vivono oltre 700 mila); età media 29 anni (dati Instat, Istituto nazionale albanese di statistica). È un Paese in crescita: in piena crisi globale le variazioni in percentuale del Pil hanno davanti un segno positivo, +1,1 nel 2012; +1,0 nel 2013 (EIU Country Report - FMI - Uffici statistica locali), pur essendosi ridotte rispetto agli anni precedenti al 2008, quando si aggiravano attorno al +6/8 per cento. Dal 24 giugno scorso, inoltre, la Shqiperia («nido delle aquile» in albanese) è ufficialmente Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea.
Sono arrivata a Tirana convinta di trovare una città involuta e scopro invece un centro vivo, pulsante che, per quanto ricco di contrasti e con ancora delle evidenti sacche di povertà, ha una gran voglia di crescere, di cambiare, di evolversi. Una città piena di giovani. Che sta coltivando una propria bellezza. E a me, che arrivo da un’Italia decadente, ripiegata su se stessa, dalla quale i giovani fuggono, tutto questo fa uno strano effetto…
Il 21 settembre papa Francesco
Ma facciamo un passo indietro. Il motivo della mia visita, infatti, non è solo quello di raccontare una città, ma di registrare come essa si stia preparando a un evento molto atteso: la visita di papa Francesco, il 21 settembre. Una visita che il Pontefice compirà rispondendo all’invito della Chiesa e delle autorità albanesi e che è stata annunciata il 15 giugno, al termine dell’Angelus. Siamo a metà luglio, ed è già tutto pronto. Il programma, per quanto non ancora ufficiale, è stabilito sin quasi nei minimi particolari.
«Lo slogan scelto dai vescovi per questa visita è Insieme con Dio verso una speranza che non delude – mi dice don Gjergj Meta, responsabile stampa per la visita del Pontefice –. Gli albanesi si aspettano da papa Francesco spiragli di speranza. D’altra parte, lui stesso, durante l’annuncio, ha sottolineato che ci verrà “a incoraggiare”». Don Gjergj mi mostra in anteprima anche il sito dell’evento (www.spes.al), che propone, in albanese e in inglese, sia il programma della visita che una carta d’identità della Chiesa locale. «La venuta di Francesco è un’occasione rara per noi di dire al mondo chi siamo» conclude don Gjergj.
Gli fa eco Albert Nikolla, antropologo culturale, direttore generale di Caritas Albania e responsabile organizzativo per la visita. «Io mi aspetto circa 250 mila persone, ma secondo altri potremmo raggiungere il mezzo milione di pellegrini – spiega –, cattolici (pure dai vicini Kosovo e Montenegro), ma anche fedeli di altre religioni. In Albania c’è grande rispetto per la Chiesa e per le sofferenze che ha patito durante gli anni del regime comunista. Abbiamo avuto 40 “martiri”, ammazzati nei modi più orribili; 180 dei 220 sacerdoti albanesi sono stati arrestati, inviati ai lavori forzati o ai campi di sterminio. È come se in Italia avessero fatto sparire 30 mila dei circa 40 mila sacerdoti presenti. Il martirio subìto ha fatto della Chiesa cattolica un’autorità morale riconosciuta da tutti».
Dello stesso parere è anche monsignor George Frendo, O.P., vescovo ausiliare e vicario generale della diocesi di Tirana-Durrës, che aggiunge: «La nostra Chiesa è rispettata anche perché non è mai scesa a compromessi con il regime. Durante la dittatura c’è stato il tentativo, da parte dello Stato, di creare una sorta di Chiesa nazionale indipendente da Roma, ma il clero è rimasto fermo e fedele. E poi siamo una Chiesa povera e la testimonianza di povertà evangelica rende credibili: la scorsa Pasqua, solo in cattedrale a Tirana, abbiamo battezzato 108 persone, quasi tutte adulte».
Ma c’è anche dell’altro. «Gli intellettuali albanesi – precisa Albert Nikolla – vedono la Chiesa cattolica come una sorta di cordone ombelicale che lega il Paese all’Europa: qui da noi non c’è il dibattito culturale, tipico di un certo background postmoderno, sulle radici cristiane dell’Unione. Alla Chiesa, inoltre, gli albanesi riconoscono di aver combattuto più di altri la visione materialista dell’essere umano, che il regime cercava di imporre. Infine, poiché da poco siamo ufficialmente candidati all’ingresso nell’Ue, questa visita ha anche un valore politico: è una sorta di pubblico riconoscimento».
«Il Papa vi ha scelto per il suo primo viaggio in Europa: orgogliosi?», chiedo al direttore di Caritas. «Molto. Lo dimostra anche il notevole impegno finanziario che il Governo si sta sobbarcando. L’ospitalità per noi è sacra: gli albanesi faranno l’impossibile per accogliere con il massimo onore un amico così speciale».
Terra di dialogo
L’Albania è un Paese in prevalenza musulmano. In base all’ultimo censimento del 2011 (dei cui dati, però, più di qualcuno dubita) i seguaci dell’islam sarebbero circa il 57 per cento, i cattolici il 10 e gli ortodossi il 7. Il Paese è un esempio di pacifica convivenza interreligiosa. Lo sottolineò lo stesso Giovanni Paolo II, nel corso della sua visita nell’aprile 1993: «Il popolo albanese deve essere preso ad esempio come il luogo dove le comunità religiose intrattengono un reciproco rispetto ed una umana collaborazione. (…) Non c’è per voi più degno motivo di orgoglio di essere indicati dall’Europa e dal mondo intero come un esempio di dialogo…».
«Da un punto di vista antropologico – sottolinea ancora Nikolla – questo si spiega con le centinaia di conversioni forzate all’islam avvenute durante il periodo di dominazione ottomana, ottenute spingendo su due leve: la tassazione (che per i non musulmani era più gravosa) e la proibizione per i cristiani di tenere armi in casa (per un albanese possedere un’arma era questione d’onore). Ma nelle famiglie musulmane il ricordo delle antiche origini cristiane è rimasto, e con esso un senso di rispetto per i seguaci di Cristo. D’altra parte va riconosciuto all’islam albanese di essere stato negli anni rispettoso e dialogico, contribuendo al mantenimento della pace interreligiosa».
Sui passi di una donna
Girando per la città la incontri dappertutto. A Madre Teresa, Nënë Tereza, come la chiamano qui, è dedicato l’aeroporto. E anche l’ospedale. E la piazza più ampia, quella dove il Papa celebrerà la Messa. Anjëzë Gonxhe Bojaxhiu (questo il suo nome di battesimo), era nata in Macedonia, ma da famiglia di nazionalità albanese. In Albania è potuta entrare per la prima volta, però, solo nel 1989. Prima di quella data non le avevano mai concesso il visto d’ingresso e avevano impedito l’espatrio ai suoi familiari. E così la beata Teresa solo nell’anno simbolo della caduta del comunismo riuscì a pregare sulla tomba della madre. Ma, prima, volle passare davanti alla tomba di Enver Hoxha, il dittatore, per deporre un mazzo di fiori. A Tirana si racconta che alcuni non gliel’hanno mai perdonato quel gesto. «Sono certo che Madre Teresa, insieme con Giovanni Paolo II, dal cielo protegga la Chiesa d’Albania», mi sussurra quasi con pudore monsignor Rrok Mirdita, arcivescovo di Tirana-Durrës.
«Pensi che il segretario di Giovanni Paolo II mi ha confidato che il Pontefice pregava tutte le mattine per l’Albania». Monsignor Mirdita è l’unico rimasto in vita dei quattro vescovi che papa Wojtyla ordinò quando venne in visita nel Paese delle aquile. Durante il regime comunista era parroco negli Stati Uniti e infatti sul suo tavolo sventolano, orgogliosamente insieme, la bandiera rossa con l’aquila nera bicefala albanese, e quella a stelle e strisce statunitense. «La visita di Giovanni Paolo II – sottolinea – ebbe luogo all’indomani della caduta del comunismo, all’aurora della libertà, in modo particolare della libertà religiosa. Dopo una dittatura così pericolosa, persino menzionare il nome del Papa era pericoloso. All’annuncio della sua venuta la gioia fu grande: era come se fosse sorto un nuovo sole per l’Albania. La sua visita contribuì a gettare le basi della Chiesa del futuro. All’epoca erano ancora vivi molti dei sopravvissuti alle persecuzioni: immagini che cosa hanno provato nel vedere il Papa nella loro terra! Oggi noi raccogliamo i frutti di quella prima visita. Abbiamo una Chiesa rinnovata, ricostruita, e non solo dal punto di vista delle infrastrutture. Papa Francesco troverà una Chiesa viva, risorta».
Oggi nel Paese di Scanderbeg (l’eroe nazionale che riuscì a proteggere per venticinque anni l’Albania dall’invasione ottomana, meritandosi il titolo di «Athleta Christi») vivono circa 500 religiosi e religiose e poco più di 100 sacerdoti diocesani. La Chiesa è molto attiva, oltre che nel campo dell’educazione, anche in ambito sociale: gestisce scuole, università, case-famiglia e poliambulatori. «Abbiamo ancora dei problemi da risolvere – commenta Florian Kamsi, consulente legale degli Enti ecclesiastici –. Nonostante i buoni rapporti con il governo, e il suo indubbio impegno, sono parecchi i beni ecclesiali, sequestrati durante il regime comunista, non ancora restituiti».
Ma quali sono oggi le sfide per la Chiesa d’Albania? «Le stesse della Chiesa universale nel mondo – riprende monsignor Mirdita –. In certi ambiti siamo avvantaggiati: per esempio non siamo costretti a difendere la famiglia, che in Albania è ancora una roccaforte. Dobbiamo però concentrarci sulla formazione dei laici, sull’educazione delle nuove generazioni e sulla catechesi, per dare ai fedeli gli strumenti per discernere quali modelli valga la pena importare dall’Europa. C’è inoltre un fenomeno particolare, solo “nostro”, con il quale dobbiamo fare i conti: è una forma di vendetta di sangue, rimasuglio di antiche tradizioni (il kanun, un codice di comportamento diffuso in alcune zone dell’Albania, ndr). Forse come Chiesa non abbiamo fatto abbastanza per contrastarlo, per esempio incontrando vis a vis le famiglie coinvolte. Quando la giustizia dello Stato funziona e la Chiesa non manca di annunciare il valore della vita umana, non è più tempo di farsi giustizia da sé! Non possiamo stancarci di ripeterlo». A monsignor Mirdita sarà affidato il saluto al Pontefice nella cattedrale. «Avrei molto da dire a papa Francesco – conclude –, ma non avrò il tempo! Di certo gli chiederò di pregare per l’Albania. Se ci ha scelto come prima meta europea, penso che nel suo cuore occupiamo un posto particolare. Immagino che lui stesso, poi, rafforzerà il messaggio che la nostra Chiesa da sempre è impegnata a diffondere: la necessità di amarsi reciprocamente, di abbandonare la vendetta, di proseguire nella tradizione di dialogo interreligioso».
ZOOM
I martiri
Angelo Massafra, Ofm (arcivescovo di Scutari-Pult, Presidente della Conf. episcopale albanese) ci racconta la storia di uno dei 40 «martiri»: «Cito la vicenda della serva di Dio Maria Tuci (unica donna della lunga lista), perché emblematica delle grandi sofferenze di un popolo. Maria nacque nel 1928. Studiò a Scutari all’istituto delle Suore stimmatine, presso cui entrò come aspirante. Il 10 agosto del 1949 fu arrestata: la sua prigione era un buco senza luce né aria. Venne sottoposta a torture e picchiata selvaggiamente. Per aver resistito alle lusinghe di uno dei capi, fu chiusa dentro un sacco con un gatto selvatico. Trasportata nell’ospedale civile di Scutari in gravi condizioni, prima di morire disse a un’amica: “Si è avverata la parola del mio persecutore: ‘Ti ridurrò in uno stato tale che neppure i tuoi familiari ti riconosceranno’. Ringrazio Dio perché muoio libera!”. Morì il 24 ottobre 1950. Molti albanesi sono morti al grido di “Viva Cristo Re, Viva l’Albania”: ci auguriamo che con la venuta del Papa questo grido diventi nuova manifestazione di amore per Cristo da parte dei cristiani albanesi, capaci, in forza di tale amore, di imprimere alla loro terra un nuovo volto».
La bellezza al potere
È premier dal settembre 2013. Edi Rama, 50 anni è un affermato pittore che ha messo la passione per la bellezza al servizio del suo Paese.
Msa. Quale volto sta dipingendo all’Albania?
Rama. Vorrei darle il volto della speranza. Vorrei dare alla gente un nuovo orizzonte di speranza, perché possa camminare più velocemente verso un futuro differente.
Quali sono le priorità?
C’è bisogno di lavoro, di un’economia più stabile e di giustizia. Ma anche di educazione e di cultura.
Lei sta facendo del ripristino della bellezza uno degli obiettivi del suo agire politico.
Credo molto nel potere della bellezza e nel potere dello spazio pubblico ben organizzato. Credo nel potere delle città sulla comunità e delle comunità sulla città. Ho sempre pensato che spazio pubblico e bellezza dello spazio creino comunità e cittadini. In caso contrario, si vive in una selvaggia individualità che uccide ogni appartenenza e ogni senso di comunità.
Papa Francesco vi ha scelto per la sua prima visita in Europa.
Papa Francesco è straordinario: è l’essenza della semplicità. Il fatto che abbia scelto l’Albania dice all’Europa che bisogna ripartire dalla povertà e dai più deboli; le dice che deve tornare a essere una forza del bene contro quei mali che, se non affrontati, ne generano altri più grandi, come i totalitarismi e gli estremismi. Siamo un Paese unico per tanti motivi: perché da noi convivono in pace cristiani e musulmani. Perché abbiamo attraversato l’inferno, con migliaia di vittime e 300 mila opere d’arte e libri religiosi bruciati per le strade e centinaia di chiese e moschee fatte saltare in aria con la dinamite. Anche per questo la rinascita è stata fantastica.
Che cosa rappresenta oggi l’Italia per l’Albania?
Negli anni ‘90, all’inizio del nostro percorso verso la libertà, il regista Gianni Amelio venne in Albania per girare il suo film Lamerica, in cui c’era quell’immagine incredibile dell’esodo albanese verso l’Italia. A vent’anni di distanza Amelio è tornato per girare un altro film: la storia di un italiano che arriva in Albania per cercare lavoro. Oggi ci sono 19 mila italiani che lavorano qui, e tante aziende vogliono venirci, perché rappresentiamo l’orizzonte ideale per l’imprenditore italiano.
Lei ha affermato in un’intervista: «Faccio politica per combattere l’idea della morte».
Ho detto quelle cose in un momento particolare: era la sera della vittoria alle elezioni, ero felice, ma stanchissimo. La politica attiva per me è simile alla creazione artistica: attraverso quello che faccio o quello che riesco a realizzare combatto l’idea del morire.
Il Villaggio dei bambini
Papa Francesco, nel tragitto di ritorno verso l’aeroporto, farà una piccola deviazione. Obiettivo: la sede dell’Associazione Betania, «Shoqata Betania», un’oasi nel comune di Bubq Fushe-Kruje.
Arrivo al villaggio «Betania» in tarda mattinata. Monica e Anna, responsabile e vice della casa albanese, mi accolgono davanti alla grande struttura centrale, che ospita gli spazi comuni e le stanze dei piccoli. Accanto a essa sorgono alcune casette e una piccola chiesa, al di fuori della quale campeggia una grande statua di sant’Antonio. Chiedo il motivo di quella presenza. «Sant’Antonio è l’ispiratore e il protettore della nostra opera» mi dicono. Mi sento a casa.
«L’Associazione Betania – racconta Monica – nasce a Verona, formalmente il 16 febbraio 1990, per opera di Antonietta Vitale. Si tratta di un’opera di carità, ispirata dalla preghiera, che si occupa di minori in difficoltà, ma anche di adulti con problemi di dipendenza, immigrati, ragazze madri, carcerati... È composta di consacrate, famiglie e volontari». Oltre alla sede albanese, l’Associazione ha dieci case in Italia e una a Emali, in Kenya.
«Questa struttura è stata inaugurata nel gennaio 1999 – prosegue Monica –. Al momento è gestita da quattro consacrate e due coppie di volontari. Lavoriamo in prevalenza con bambini: ne abbiamo ora un centinaio, di tutte le età, molti dei quali orfani di padre o di madre o comunque figli di genitori che non si possono occupare di loro. In tutti questi anni, però, abbiamo aiutato anche i comuni, le scuole, le carceri». Come accoglierete papa Francesco? «La sua venuta è un dono che il Signore ha voluto farci. Difficile esprimere l’emozione. Sicuramente lo accoglieremo con grande entusiasmo e con tutto l’amore che abbiamo».
Info: www.associazionebetaniaonlus.org