Archimede abita a Silicon Valley

La sua storia è quella di un self-made-man che ha sfondato in America: la partenza dall’Italia, lo spirito imprenditoriale, l’idea giusta al momento giusto, i sacrifici e il successo.
05 Febbraio 2001 | di

Tutto comincia nella tranquilla cittadina abruzzese di Chieti, nelle aule del Liceo classico Giambattista Vico. Pierluigi Zappacosta, che non ha mai aspirato ad essere il primo della classe, si è diplomato in questo istituto, e per gli amici è il classico bravo ragazzo, tutto intuito e allegria. C'era però già  in quegli anni una grande passione nella mente del ragazzo e si chiamava matematica e logica, e i due elementi combinati insieme lo indussero a scegliere la facoltà  di Ingegneria elettronica. È il 1976-1977. Laureatosi in Ingegneria con voti brillanti, l'ex studente liceale seguì i consigli paterni del professor Ruberti (destinato da lì a qualche anno a diventare ministro dell'Università ) iscrivendosi a un master dell'Università  di Stanford. Per strada ha lasciato un amico fraterno, Giacomo Marini, laureatosi in Informatica alla Normale di Pisa e fresco impiegato all'Olivetti di Ivrea: un amico prezioso che avrebbe di nuovo incontrato lungo la strada dei suoi progetti.

Pionieri dei bit

Zappacosta arrivò in California nel momento giusto. In quegli anni, Steven Jobs aveva appena fondato la «Apple», un marchio destinato a cambiare radicalmente l'approccio del comune operatore con gli elaboratori elettronici, e decine di imprese ad altissimo contenuto informatico avevano dato vita a quella che sarebbe divenuta la mitica Silicon Valley. Dopo poco più di cent'anni, la California aveva offerto nuove miniere d'oro ai coraggiosi «cercatori» del XX secolo.
Zappacosta capitò nell'alveo fecondo del capitalismo, negli anni d'oro dell'industria elettronica, e respirò il clima frizzante della Stanford, dove decine di studenti si preparavano a diventare giganti dell'informatica. Tra questi, anche Andreas Bachtolsheim, fondatore della Sun Microsystem - che nel 1986 ottenne la nomina, da parte di Fortune del «Fastest Growing», il «diploma» di azienda con la crescita più veloce nel mondo - , e Daniel Borel, uno svizzero intenzionato a sua volta a sfondare nel campo dei servizi informatici. Insieme i due promettenti «archimede» dell'elettronica, diedero vita alla Logitech, una società  di consulenza.
Il ragazzo, che aveva studiato con amore la Divina Commedia di Dante Alighieri, iniziò così la sua personale strada tutta all'insegna dell'informatica, al costo iniziale di soli mille dollari. «Nonostante mi occupi di tecnologia d'avanguardia - osserva Zappacosta - , devo gran parte della mia filosofia professionale a don Antonio Mariani, professore di italiano nel mio liceo. È da lui che ho appreso l'amore per le terzine di Dante. Mi ha insegnato la profondità  dei versi danteschi e nello stesso tempo mi ha aiutato a non essere timido nell'espressione delle opinioni».
Sposatosi con una compagna del liceo, Enrica D'Ettorre, il giovane ingegnere arrivò alla componentistica solo dopo vari aggiustamenti imprenditoriali.
«Per la verità  non sapevamo bene cosa fare - continua Zappacosta - . Dalla consulenza passammo ai word processing cercando di creare qualcosa di americano per il mercato europeo. Ma in quegli anni capimmo che non sempre quello che è possibile fare negli Stati Uniti, riesce bene in Europa, dove il mercato è formato da tante sacche di protezione impossibili da scardinare per un outsider».
La vita di Pierluigi Zappacosta, per diversi anni ritornò a colorarsi di pendolarismo. Incertezze, amarezze, temporanei insuccessi, portavano l'abruzzese (con al fianco moglie e figlio) da una sponda all'altra dell'Oceano fino al 1981, anno dell'incontro fondamentale con i giapponesi della Ricoh.
«Grazie a loro potei di nuovo trasferirmi stabilmente a Palo Alto, nella Silicon Valley, dove riaprì i battenti la Logitech. Ci assegnarono un contratto di ricerca iniziale e nel corso dei successivi quattro anni arrivarono a finanziarci fino a due milioni di dollari, il tutto per sviluppare prodotti della nostra ricerca, tra i quali soprattutto lo scanner».

Da Logitech a Digitalpersona

Il 1981 segnò l'ingresso in società  anche del vecchio amico Giacomo Marini. Trasferitosi in California, egli decise infatti, a sua volta, di entrare nell'avventura di Zappacosta e assunse la carica di viceamministratore delegato. Gli affari iniziarono ad andare bene ma la vera svolta per il duo abruzzese arrivò nel 1984, quando la Logitech iniziò la commercializzazione e la produzione del mouse, un oggetto studiato per la grafica e per il disegno industriale e che oggi qualsiasi possessore di computer adopera con assoluta naturalezza. Mouse e scanner divennero così le fondamenta di una società  che nel 1995 arrivò a fatturare 306 milioni di dollari e che ha visto nascere stabilimenti a Taiwan, Monaco, Shangay, Singapore e in Svizzera.
Divenuto una vera autorità  nel campo delle tecnologie del progresso, l'ingegnere teatino ancora oggi conserva un ricordo affettuoso della sua città . «Diciamo che ho un rapporto di amore-odio con il mio Paese. Ci vengo un paio di volte all'anno e ogni volta che vado a Chieti dai miei genitori, da mio fratello, dai miei amici, è un sovrapporsi di sensazioni molto belle. Ma tornarci a lavorare non è certamente facile. Negli Stati Uniti le condizioni operative sono ideali, tutto sembra fatto apposta per chi vuole crescere, fare business, investire, creare occupazione e ricerca. In tanti anni non ho mai ricevuto pressioni di alcun tipo, né ho mai dovuto fare ricorso a raccomandazioni. In Italia non sembra che esistano le stesse libertà  di movimento per i giovani imprenditori».
E l'Italia, per il momento, resta un obiettivo ancora lontano per l'iperattivo italiano di Silicon Valley. Nel 1996, infatti, Zappacosta ha intrapreso una nuova avventura, dopo aver ceduto il pacchetto più sostanzioso delle quote della Logitech. A una famiglia effettiva che, nella residenza di Atheerton (California) si è ingrandita negli anni di altri due figli (il primo frequenta oggi la prestigiosa università  di Padova) fa ora da contraltare la Digitalpersona, un'azienda che accomuna nell'entusiasmo l'intero nucleo familiare del teatino: «Viviamo in un momento di distruzione creativa. È come imparare ad andare in bicicletta. Se uno è preoccupato di cadere, sceglierà  di andare sul triciclo e non andrà  mai veloce. I bambini imparano a pedalare più in fretta degli adulti perché non si preoccupano di cadere e vogliono soltanto provare l'emozione della libertà . Io credo fermamente in questa condizione mentale e mi sento ancora un bambino che cerca nuove libertà Â».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017