Auto mutuo aiuto. Insieme per liberarsi
Può bastare un attimo. Ti fermi, e pensi che da solo non puoi più farcela. Hai bisogno di un altro che ti dia una mano a trovare la forza di ripartire. Non un terapeuta (troppo impegnativo). Non un amico (capirebbe?). Non un familiare (gli affetti complicano il tutto). Cerchi qualcuno come te, che possa esserci senza giudicare. Ascoltare, senza dare consigli. Stare in silenzio o raccontarti di sé. Gratuitamente.Sono tra i 130 mila e i 190 mila coloro che fanno parte di un gruppo di auto mutuo aiuto (Ama), cioè «persone che condividono una problematica e si incontrano per sostenersi reciprocamente», spiega Alberto Gipponi, dell’Ama-Brescia (http://amabrescia.org).
In settembre la cittadina lombarda ha ospitato il settimo convegno nazionale dedicato ai gruppi di auto mutuo aiuto, che, suddivisibili in centoventitré tipologie secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, in Italia sarebbero circa 9 mila (per una mappatura nazionale dei gruppi www.automutuoaiuto.it).
Dai primi, gli alcolisti anonimi, nati nel 1935 negli Usa, al boom degli anni ’70, i gruppi Ama nascono nelle più diverse situazioni di vita e di fronte alle più nascoste problematiche: dai giocatori d’azzardo a chi soffre di disturbi alimentari; dai «dipendenti» da internet ai genitori che hanno perduto un figlio o sono alla prese con un bambino Adhd, cioè affetto da disturbi da deficit dell’attenzione con o senza iperattività. Piccole realtà, generalmente tra i quattro e i quindici componenti, fatte di persone alla «pari», finalizzate a dare forza, emancipare, aumentare le capacità di sviluppo, di efficacia, di competenza della persona, in una parola a fare empowerment, concetto oggi molto usato nelle scienze sociali.
Come nascono i gruppi
«Alcune persone fanno auto aiuto senza saperlo. Quattro-cinque amiche che si incontrano, o neo mamme che si raccontano dei loro problemi, sono un piccolo gruppo che non sa di esserlo e lo scopre dopo mesi o anni», spiega Gipponi. A Bari, per esempio, alcuni giovani cardiopatici, per caso, si sono ritrovati in palestra. Intorno a una cyclette e a un tapis roulant dalla chiacchiera si è passati a una relazione più profonda: «Hanno scoperto qualcosa di straordinario, l’auto aiuto, un processo di sostegno reciproco e la volontà di andare oltre il momento del ricovero» ha raccontato al convegno nazionale Giovanna Lupis, dell’Ama-Bari. Così, un pomeriggio, intorno alla macchinetta del caffé dell’ospedale, è nata Ama Cuore (per info amacuorebari@libero.it). Andrea, Franco, Francesco hanno capito che si stava meglio se si parlava con qualcuno che condivideva lo stesso problema e la stessa voglia di continuare a fare sport in sicurezza. Paradossalmente «la malattia è diventata una risorsa per andare avanti», ha detto Lupis. Il gruppo ha deciso di portare la propria esperienza in ospedale, in cardiologia patologica, per dire ad altri che insieme si poteva trovare una via d’uscita. «Ogni anno l’arresto cardiaco uccide 50 mila persone e un terzo muore per strada; molti sono i giovani e tanti hanno un arresto mentre corrono: il primo soccorso cardiologico è essenziale». Per questo motivo Ama-Bari ha deciso di fare informazione nelle scuole e nei centri sportivi, ha dato vita a un laboratorio di salute, ha promosso corsi di attività fisica in sicurezza.
«I gruppi in genere nascono per attrazione, se vengono imposti non funzionano: c’è un’associazione ombrello che copre una zona, fa da punto di riferimento per l’auto mutuo aiuto, indirizza le persone, accompagna i nuovi gruppi per i primi sette-dieci incontri e li tiene in rete» spiega Gipponi, facendo riferimento all’attività di «ombrello» che dal 1997 l’Ama compie a Brescia e provincia.
Una nascita spontanea, non imposta; la relazione faccia a faccia e la partecipazione personale; la condizione di difficoltà iniziale condivisa dai membri del gruppo; la funzione di risocializzazione e di autorinforzamento sono – secondo Silvia Catina, che sull’argomento ha sostenuto la sua tesi di laurea in Scienze del servizio sociale – le caratteristiche comuni a tutti i gruppi. I quali, su questa base, possono essere divisi in tre categorie. In primo luogo quelli che forniscono aiuto in situazioni di crisi – come ad esempio separati e divorziati, genitori soli – «che rispondono al bisogno di informazione su come riuscire a gestire i nuovi problemi e danno sostegno, aiuto nelle fasi acute di necessità». La seconda categoria riguarda le realtà che «hanno a che fare con persone alle prese con una condizione esistenziale di stigmatizzazione di tipo permanente: gruppi per persone affette da difetti fisici, ex pazienti psichiatrici…». Questi gruppi, spiega Catina, aiutano a «sopportare» lo stigma o migliorare l’immagine di se stessi. Infine, ci sono gruppi per persone «intrappolate» in una dipendenza: gruppi per alcolisti, per tossicodipendenti, per fumatori, per giocatori d’azzardo… Tali gruppi cercano di aiutare i partecipanti a riacquistare il controllo sul proprio stile di vita. E spesso lo fanno usando il metodo sperimentato dagli alcolisti anonimi, chiamato dei «dodici passi», un percorso spirituale graduale da fare in gruppo guardando a un riferimento Altro, che, per chi crede, può essere Dio (www.alcolisti-anonimi.it).
Alla prima categoria – aiuto in situazioni di crisi – appartiene, per esempio, il gruppo Ama di Ravenna, costituito da coppie di genitori e singoli i cui figli adolescenti si sono avvicinati o hanno fatto uso di droghe. «Fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, ecco perché ho cercato aiuto – ha raccontato una mamma del gruppo, portando la sua testimonianza al convegno nazionale –. Ti ritrovi in un momento della tua vita in cui ti chiedi perché e dove hai sbagliato, non riconosci più i tuoi figli, ti senti accusata di aver dato troppo e non essere stata capace di dire di no. Provi a parlarne con qualche amica o collega di lavoro e tutto quello che ti senti dire è “poverina, non vorrei essere nei tuoi panni…”. Provi a parlarne in famiglia con il marito e senti solo accuse che si trasformano in litigi.
Finalmente si apre una luce e ti viene in mente di aver conosciuto un operatore che potrebbe darti una mano». Da questi incontri è nato il gruppo «Genitori in adolescenza», in collaborazione con la Ausl di Ravenna e il Sert di Lugo (RA). «Trovarti a parlare liberamente senza vedere sguardi di compassione o sentirti criticato per quello che stai vivendo, poter scambiare consigli, paure, emozioni e trovare la forza di ricominciare un rapporto con i propri figli che credevi di non recuperare più, è come rinascere», raccontava la signora di Ravenna. E indicava la positiva ricaduta del gruppo anche nella relazione con il marito. «Tutto ciò migliora il dialogo con il partner, aiuta a non aver paura di dire quello che pensi, a provare emozione quando lo vedi dialogare con più serenità con i figli».
Un elemento importante all’interno di ogni gruppo è il cosiddetto «facilitatore», che ha un ruolo diverso dagli altri partecipanti, ma è sul loro stesso piano. «Il suo compito – spiega Gipponi – è far circolare la parola». Insomma, al facilitatore (detto anche operatore, helper, catalizzatore, servitore) tocca accogliere i nuovi partecipanti, tutelare le dinamiche di gruppo, essere di aiuto nei momenti critici. «È un regista che sta dietro le quinte – dice Catina – un promotore di empowerment». Sul fatto che debba necessariamente condividere la condizione problematica dei partecipanti al gruppo non tutti i teorici dell’auto mutuo aiuto sono d’accordo. «La cosa importante è che il gruppo non si sostituisca alle terapie: non si parla di farmaci e anche se ci fosse un medico, o se il facilitatore fosse un terapeuta, quella non è la sede per esprimersi professionalmente, ma come persona – spiega Gipponi –. D’altra parte, chi tra i partecipanti al gruppo segue una cura, chi è in terapia, continua a farla. Il gruppo è un sostegno diverso, non alternativo».
Una delle resistenze principali ad aderire a un gruppo è spesso la paura di raccontare ad altri cose di cui non si è parlato mai neanche con l’amica più cara o con il proprio partner. «Per questo motivo la fiducia e la riservatezza sono caratteristiche dell’auto mutuo aiuto: quello che si dice in gruppo, lì resta, non esce fuori per nessun motivo», chiarisce Alberto Gipponi, che ha fatto parte dei gruppi di separati e divorziati. Inoltre, aggiunge, «una certa resistenza viene opposta anche al fatto che il gruppo c’è 24 ore su 24. Qualcuno all’inizio ha il terrore che l’altro lo chiami sempre, ma poi scopre che è un qualcosa di diverso, perché si diventa un microcosmo di amici, dove si crea fiducia, e può capitarti, come è successo a me, di passare nottate al telefono con persone che avevano bisogno proprio in quel momento».
In media un incontro dura un’ora e mezza, con cadenze diverse, a seconda delle tematiche trattate e della fase della vita del gruppo: «Il gruppo ha un suo percorso di vita, con up e down naturali. Può durare anche anni. Per esempio, sulla separazione e divorzio come Ama-Brescia ci siamo dal ’97. Nei momenti di picco ci si può vedere anche più spesso, una volta a settimana o due, ma ci sono gruppi di genitori di adolescenti che magari si vedono solo una volta al mese».
Non solo per problemi
Oggi tra le problematiche in crescita si registrano i disturbi legati alla sfera dell’ansia, della paura e la dipendenza dal gioco d’azzardo. Ma è anche vero che il bisogno di trovare qualcuno con cui parlare, senza maschere, è sempre più diffuso e quindi la scelta di partecipare a un gruppo non necessariamente è legata a una condizione problematica particolare. Insomma, il gruppo è in sé uno strumento «terapeutico». «Chi partecipa si rende conto che prendersi un’ora e mezza tutta per sé ogni quindici giorni non è poca cosa. Il gruppo serve anche a chiarirsi le idee sul cammino da fare in presenza di qualche problema, se approfondire con un terapeuta qualche aspetto venuto fuori durante gli incontri, o anche a migliorare le relazioni affettive, familiari», dicono Stefania Rossi e Paola Montanari, le fondatrici dell’associazione Eudìa (www.asseudia.it), un centro di ascolto e counceling che, a Roma, si preoccupa appunto di «benessere». L’idea da cui Eudìa parte è antica, ma oggi risulta particolarmente efficace: «In una società che quasi ti costringe a blindarti, a corazzarti per sopravvivere, recuperare l’ascolto di sé attraverso il confronto con altri diventa un fattore di equilibrio e di forza». Così tra le varie attività proposte dall’associazione ci sono proprio i gruppi di auto mutuo aiuto, non legati a tematiche particolari, ma finalizzati a essere spazi dove poter comunicare con se stessi anche attraverso il racconto dell’altro, non sentendosi soli in un processo di cambiamento.
«Spesso la gente viene al gruppo per rispondere a un problema di solitudine», dice Paola. Non si tratta di persone che vivono da sole, ma piuttosto che si sentono sole in mezzo a tanti. «I problemi che tornano con più frequenza sono le relazioni familiari, non quelle lavorative. Si parla quasi sempre dei genitori, del partner, dei figli», aggiunge Stefania. Il gruppo ti dà allora l’occasione di essere ascoltato e di ascoltare, c’è un doppio ruolo. Ciascuno sceglie tempi e modi, per parlare o per tacere, senza che nessuno dica quello che si deve fare o possa giudicare. Ognuno, insomma, è libero di essere se stesso.
Dipendenze. La risorsa famiglia
L’auto mutuo aiuto è uno dei principali metodi utilizzati dalla comunità San Francesco di Monselice (PD), gestita dai frati minori conventuali per dare aiuto concreto alle persone e alle famiglie che hanno un problema correlato all’abuso di alcol e droga. Ne parliamo con uno dei frati: padre Danilo Salezze.
Msa. Come si pone la comunità San Francesco rispetto all’auto mutuo aiuto?
Padre Danilo. La nostra comunità ha ormai un’esperienza trentennale. Al di là di alcuni apporti di professionisti, resta grande lo spazio per l’auto protezione e l’auto promozione della salute, a partire dalle potenzialità dei soggetti coinvolti e delle loro famiglie.
La comunità ha sperimentato i gruppi di auto mutuo aiuto?
Certo, sia nei gruppi delle persone ospitate durante il periodo residenziale, ma anche nei gruppi multifamigliari settimanali che organizziamo dopo il periodo di residenza. Davvero il gruppo di auto mutuo aiuto catalizza efficacemente competenze, esperienze, risorse spirituali e umane. La comunità coopera poi strettamente con un grande numero di gruppi di auto mutuo aiuto del territorio che sono i Club degli alcolisti in trattamento.
Come definirebbe l’auto aiuto?
Semplicemente il luogo della soluzione della maggior parte dei problemi legati al benessere, in cui si impara ad aver cura di se stessi, a livello personale, famigliare, comunitario. Chi meglio dell’individuo è interessato alla soluzione dei propri problemi?
E il mutuo aiuto?
Il concetto di mutuo aiuto esprime la capacità e la volontà di mettersi nei panni degli altri, per mettere insieme risorse e competenze, fare insieme cordata unendo molteplici fili di intesa e di collaborazione nell’empatia. Auto aiuto e mutuo aiuto si integrano reciprocamente.
Tornando alla comunità San Francesco, quali sono i risultati dell’auto mutuo aiuto?
Innanzitutto se ne avvantaggia il singolo, ma anche tutta la famiglia, soprattutto quando questa partecipa unita e fedele al gruppo multifamigliare settimanale. Sperimentiamo dei risultati sicuri: la cooperazione al mantenimento del non uso delle sostanze, al cambiamento dello stile di vita; il miglioramento delle relazioni con tutti, insieme a un progressivo rinnovamento interiore.
È importante la partecipazione di tutta la famiglia al gruppo?
La famiglia è il luogo dell’auto mutuo aiuto per vocazione, luogo del «tutti per uno e uno per tutti», dove il benessere di uno è il benessere di tutti. L’auto mutuo aiuto vissuto nella famiglia
è un grande incentivo al cambiamento continuo.
Quanto deve durare la partecipazione a un gruppo di auto mutuo aiuto?
Ognuno naturalmente è libero, ma ci chiediamo che senso avrebbe interrompere un cambiamento positivo ben iniziato e che mai potrebbe dirsi concluso.
Ansia. Un aiuto alla terapia
C’è chi disegna la mappa delle farmacie che incontra lungo il percorso tra il punto di partenza e quello di arrivo. Chi ti chiama all’ultimo momento per dirti che anche quella sera non ce la fa a uscire di casa. Chi abbandona la proiezione nel bel mezzo del film, la fila al supermercato o allo sportello della posta. Disturbo da attacchi di panico, paura paralizzante di rivivere quel momento che ti ha svelato lo sconosciuto che vive in te. E con il quale piano piano bisogna fare i conti. «Le statistiche dicono che dai disturbi da attacchi di panico si guarisce. Io ce l’ho fatta tramite il gruppo di auto mutuo aiuto, ma la nostra associazione è per un approccio integrato: gruppo, terapia, farmaci» purché se ne esca. Patrizia Peretti è la presidente regionale della Lega italiana disturbi da ansia, agorafobia e attacchi di panico (Lidap) Lazio, l’associazione che, per prima in Italia, dal ’91 promuove gruppi di auto mutuo aiuto per curare questi disturbi. «Si va sempre di corsa, con ritmi che alla fine trasmettono ansia. Può essere una condizione fisiologica, ma se non ci si ferma in tempo si può scadere nella patologia. Nel gruppo ci aiutiamo a capire cos’è che ha scatenato questa situazione: è la classica goccia che ti avverte che dentro di te deve cambiare qualcosa. Da questa consapevolezza si parte per trovare un cammino di guarigione». Oggi Lidap (www.lidap.it) conta una sessantina di gruppi sparsi su tutto il territorio nazionale. «In questi ultimi anni è aumentata la domanda ma anche le associazioni che promuovono gruppi di auto mutuo aiuto su questa problematica» sottolinea Patrizia. A indicare, come detto da più parti e come indica il crescente consumo di ansiolitici, che i disturbi connessi all’ansia e al panico rischiano di essere le patologie dei nostri giorni. Lidap Lazio, che dal 2004 ha creato un coordinamento dei gruppi riconosciuto dalla Regione, sta per varare uno sportello Ama a livello istituzionale, perché anche nelle strutture pubbliche la pratica dell’auto mutuo aiuto per l’ansia diventi una possibilità di guarigione accanto alle altre.
Gioco. Qui s’impara che «Gratta e perdi»
All’inizio basta una piccola vincita a incoraggiarti. Un tagliandino da raschiare in un secondo e il miraggio di una ricchezza a portata di mano. È un gioco, poi smetto. «In realtà quando ti rendi conto che è diventato un problema è già troppo tardi». Chi racconta questa esperienza preferisce non far conoscere la sua identità. Fa parte di un gruppo di auto aiuto di familiari di giocatori d’azzardo in una città del Nord. L’anonimato, dice, è una forza di garanzia, di fiducia per gli altri che con lui condividono il problema. Da un giorno all’altro scopri che un marito, una moglie, o un figlio ha dilapidato una fortuna, si è venduto agli usurai, ha prosciugato una carta di credito per giocare. «Sempre più si tratta di gioco passivo, non poker o scopa per intenderci, ma slot machine, gratta e vinci, lotto. E adesso il gioco on line».
Secondo stime fornite da società che si occupano di gioco d’azzardo in Italia, sarebbero 700 mila le persone soggette a questa patologia che prende sempre più piede, due milioni le persone a rischio. E da un’indagine fatta dall’Ama di Brescia su 600 studenti liceali tra i 17 e i 18 anni, lo 0,5 per cento risultava essere già un giocatore compulsivo, e l’8 per cento dei soggetti intervistati era a rischio. «Chi arriva al gruppo si chiede dove si è sbagliato, perché il proprio familiare sia diventato un giocatore. Le risposte variano da persona a persona: traumi, lutti, poca autostima, personalità non ben definite. Di fatto questa dipendenza non conosce differenza di classi sociali né di età: dal professionista all’extracomunitario, dal laureato all’operaio, dai 20 ai 70 anni». Negli ultimi anni, rileva, con l’accessibilità indiscriminata a gratta e vinci e slot machine in tutti gli esercizi commerciali, il fenomeno ha subìto un forte incremento. E il target dei giocatori si è posizionato sempre più sugli ultrasessantenni e le donne. Il gruppo tenta di dare un aiuto per recuperare un po’ di serenità familiare e, se è il caso, indirizza a qualche consulente per problemi specifici. La lezione che si impara è dura: «Con il gioco d’azzardo non vinci mai. E rischi di perdere tutto».
Separati e divorziati. Girare pagina insieme
«Giro pagina. Ricomincio da me»: è un manifesto programmatico il nome che si è dato il gruppo separati e divorziati dell’Ama-Brescia. La fatica sta proprio nella capacità di girare quella pagina, senza voler bruciare quello che c’è stato prima, ma cercando di scrivere una nuova storia che della vecchia in qualche modo faccia tesoro o comunque l’assuma con tutto il suo carico di dolore e conflittualità. Per questo motivo, il gruppo diventa uno spazio dove, «attraverso il confronto con il vissuto dell’altro, si cerca di superare le difficoltà della separazione. Che sono tante: dai problemi economici alla perdita dell’oggetto di amore al conciliare i tempi del lavoro con quelli dell’educazione dei figli», dice Bruno Barbieri, che è facilitatore del gruppo e di professione è psicoterapeuta.
A parte una breve pausa in agosto, il gruppo, che ha sede a Montichiari (BS), si incontra due volte al mese. Generalmente partecipano 10-12 persone e negli anni un lento turn over ha fatto sì che decine di persone si alternassero, senza che l’esperienza del gruppo venisse meno. Se in media il gruppo è composto in maniera equilibrata da uomini e donne, è pur vero che spesso il primo approccio è più problematico per i primi, che di solito si avvicinano sostenendo «di non averne bisogno». Diversa la situazione femminile. «Le donne in genere chiedono un sostegno alla genitorialità. Spesso sono donne con figli piccoli o adolescenti. A volte alle prese anche con problemi economici», poiché in molti casi il coniuge non versa l’assegno familiare pattuito. I frammenti di famiglia che arrivano al gruppo raccontano di coppie che si sposano già mature, che dopo 10-15 anni di matrimonio hanno deciso di separarsi. A quel punto «Girare pagina» diventa una fatica. Ed è meglio affrontarla con qualcuno che condivide lo stesso problema.