Capodarco: dall’handicap al Sud del mondo
La storia della 'Comunità del risorto', nata per ridare dignità e prospettive di vita ai disabili, si è poi aperta a tutti i settori del disagio. Il tentativo di collegare i giovani italiani con i coetanei dei paesi poveri, per farli diventare protagonisti di un nuovo tipo di sviluppo. |
Per i giovani che, tra gli anni Sessanta e Settanta, oltre a vestire l'eskimo di ordinanza e parlare di rivoluzione, avevano anche voglia di impegnarsi per gli altri - gli handicappati, ad esempio, che nella graduatoria degli 'ultimi' stavano al gradino più basso - Capodarco era come Woodstock per i figli dei fiori, cioè una esperienza importante, forte, nella quale l'handicappato, finalmente non più oggetto di pietosa assistenza, iniziava a diventare protagonista del proprio riscatto.
Neppure oggi, nonostante evidenti progressi, gli handicappati vivono una condizione ideale.Allora era un vero disastro. Al disagio dell handicap, fisico o psichico, si aggiungeva quello dell'emar-ginazione: parola abusata tanto da perdere il suo vero significato, ma che nel caso degli handicappati voleva dire essere al di fuori, e quindi privati di tanti diritti: allo studio, al lavoro, al vivere con gli altri, perché segregati in casa dalle famiglie che vivevano la disabilità con un forte senso di colpa.
Gli handicappati erano vittime di pregiudizi e isterie. Come questi riferiteci dall'ex ministro per la Famiglia, Antonio Guidi, anche lui disabile: 'Attraversavo un ponte con la mia prima fidanzatina - ha raccontato - , quando incrociai un'anziana signora che accompagnava la figlia incinta. Al vedermi, la mamma allungò il passo suggerendo alla figlia: 'Non guardarlo, il bambino potrebbe nascerti storpio'. La fidanzatina sentì, arrossì e non la vidi più...'.
Capodarco ha segnato nel mondo dell'handicap l'avvio di un cammino nuovo. Ne fu animatore don Franco Monterubbianesi. Vocazione adulta, ex insegnante di filosofia in seminario, battitore libero, don Franco aveva un debole per gli handicappati che a volte accompagnava a Lourdes con i pellegrinaggi dell'Unitalsi. Ma con crescente insofferenza per il clima di dolciastro pietismo che aleggiava attorno a questi particolari pellegrini. E un giorno, mentre un sacerdote dall'altare recitava la solita retorica sulla sofferenza ('Il Signore fa soffrire chi ama... Voi siete l'immagine di Cristo sofferente') non ne poté più: si fece strada tra la folla che gremiva la basilica, salì sull'altare e, agguantato il microfono, disse cose che fecero accapponare la pelle. Chi c'era, Marisa Galli ad esempio, una delle prime della comunità di Capodarco, ricorda soprattutto queste: 'Gli invalidi, come tutti noi, sono immagine di Cristo risorto, e hanno bisogno e voglia di vivere, di vedere valorizzata la loro situazione, le loro potenzialità anche umanamente e socialmente'.
Per questo la prima comunità (tredici inizialmente gli ospiti handicappati) - che nel Natale del 1966 vedrà la luce in una vecchia villa malconcia di Capodarco sulle colline vicino a Fermo, nelle Marche, appartenuta ai Piccolomini e donata a don Franco da un'associazione collaterale dell'Azione cattolica - si chiamerà 'Comunità Cristo risorto'. Non fu solo una questione di parole. Ricorda don Franco: 'Il problema dell'emarginazione degli invalidi è il problema dell'emarginazione dell'uomo: a Capodarco non si lotta per il semplice recupero degli invalidi, si lotta per la risurrezione dell'uomo, di tutti gli uomini'.
Bandita, dunque, ogni mistica pietistica sulla sofferenza, cappa pesante che spesso soffoca la speranza e la vita di migliaia di handicappati, abolita nella comunità ogni distinzione tra invalidi e sani, si persegue la piena condivisione di vita. L'autogestione della comunità offre all'handicappato la possibilità di contribuire alla crescita di se stesso e della società . L'obiettivo è di far passare gli handicappati da esclusi a protagonisti, anche attraverso il lavoro - che agli inizi è la sola magra fonte di sussistenza - svolto sia all'interno della comunità che fuori di essa.
La rivoluzione di Capodarco, rispetto ad altre iniziative allora in atto, sta in questo processo di liberazione individuale e collettivo di quanti non sono tutelati dalla società , che vivono difficoltà originate dalla negazione di alcuni diritti fondamentali. La comunità si pone dalla loro parte, li aiuta a prendere coscienza dei loro diritti e doveri, li sollecita a diventare i protagonisti della propria liberazione; infine, si batte a loro fianco perché a livello legislativo siano approntate le normative che rendano possibile il loro inserimento nel mondo sociale, del lavoro e della scuola.
Questo il fil rouge di un lavoro che dura da oltre trent'anni e che nel tempo si è diversificato, come vedremo, coinvolgendo altri ambiti di emarginazione per rispondere alle sfide che una società in incessante trasformazione pone di continuo. Un cammino lungo, non facile, segnato anche da difficoltà , da momenti di crisi, di incomprensioni che hanno però aiutato la comunità a riflettere su se stessa, sul proprio ruolo, quindi a crescere, a non rinchiudersi in se stessa, ma ad allargare sempre l'orizzonte del proprio impegno.
Già nel 1970 la comunità ospita oltre cento handicappati, proponendo problemi di gestione e di espansione. Infatti, proprio agli inizi degli anni Settanta Capodarco si espande assumendo rapidamente dimensione nazionale: vengono fondate comunità a Sestu, Fabriano, Gubbio, Udine, Lamezia Terme, Roma. Oggi Capodarco è presente in 16 città e 13 regioni, con centinaia di ospiti, di obiettori di coscienza, volontari e operatori sociali. In gran numero anche le cooperative integrate, competitive sul mercato, che operano nel campo dell'elettronica, della ceramica, del riciclaggio della carta, e anche delle ricerche sociologiche e statistiche.
Con il tempo le comunità si aprono alle esigenze del territorio e devono, quindi, diversificare il loro impegno, ampliandolo a cerchi concentrici fino a coinvolgere il Sud del mondo. Afferma don Vinicio Albanesi, che ora guida la comunità : 'Il nostro contributo può e deve essere offerto nel quadro delle politiche sociali: non si tratta più di essere attenti a categorie speciali, ma di tutelare il vasto mondo del precariato'. Storicamente possiamo distinguere altri tre momenti del cammino: l'interesse per il disagio giovanile, l'apertura ai problemi del Sud del mondo, una rinnovata attenzione al mondo dell'handicap.
È a Roma che la comunità prende contatto con il disagio giovanile, dopo aver partecipato in modo attivo al famoso Convegno sui mali della capitale. Afferma don Franco: 'Abbiamo visto che anche il giovane della periferia romana, come gli handicappati, aveva bisogno di trovare lavoro, di avere un adeguato inserimento'. Nasce così a Tor Bella Monaca, un quartiere della capitale, un Centro sociale polivalente dove giovani e handicappati condividono problemi e voglia di riscatto. Legato al disagio giovanile, viene quindi il problema della tossicodipendenza. Alla fine anche i problemi degli immigrati entrano nell'ottica della comunità .
L'apertura alla mondialità . 'La solidarietà non può essere chiusa nella dimensione della cittadinanza nazionale. Siamo cittadini del mondo: la capacità di accoglienza si tramuterà in investimento', afferma don Vinicio. Da qui una intensa cooperazione con quattro paesi del Sud del mondo: Camerun, Ecuador, Guatemala e Brasile, che si traduce in progetti concreti per sostenere i tentativi di riscatto che animano quei popoli, soprattutto i loro giovani. Alla realizzazione di uno di quei progetti - un servizio giuridico in difesa degli indios di Riobamba - hanno contribuito i lettori del 'Messaggero'.
Ma si cerca anche di andare alle radici del disagio per rimuoverle. Spiega don Franco: 'All'origine del disagio c'è un falso concetto di sviluppo, impostosi negli anni Ottanta; uno sviluppo unilaterale che punta tutto sull'economia globale e contro il quale si sta infrangendo ogni speranza dei poveri. Per questo Capodarco ora ha due tensioni: di allacciare un rapporto profondo con i paesi poveri del Sud del mondo per cercare insieme un diverso processo di sviluppo, che tenga conto anche dei diritti dell'uomo. Occorre partire dai giovani: per questo abbiamo creato l'associazione internazionale 'Noi ragazzi del mondo'. Ragazzi italiani e ragazzi del Sud del mondo insieme per una società diversa. Nell'ambito del 'Movimento sulla pelle dei bambini', ragazzi brasiliani hanno girato per le scuole italiane a parlare dello sfruttamento minorile. Alla fine è stato steso un documento bellissimo: Lettera ai ragazzi del mondo, presentato al Forum dei popoli di Perugia... Gli incontro si sono conclusi a dicembre ad Ascoli Piceno con un seminario nel quale gli adulti sono andati in crisi quando 300 ragazzi hanno dichiarato: 'Il problema non siamo noi ragazzi, ma voi adulti che ci insegnate solo l'egoismo''.
Come mai questo interesse per i ragazzi?, abbiamo chiesto a don Franco.
'Il futuro della società è il presente dei giovani: il loro smarrimento non è solo sociale, riguarda i valori della vita. Dobbiamo farci carico del disorientamento offrendo occasioni di speranza. Un giovane italiano che va a fare un'esperienza nel Sud del mondo porta la sua professionalità , ma torna ricaricato di speranza. I giovani di laggiù hanno patito più di altri le conseguenze del falso sviluppo, però sono pieni di speranza e di voglia di venire a capo dei loro problemi...'.
Ha l'impressione che i ragazzi recepiscano?
'Queste esperienze forti di contatto tra ragazzi del Nord e del Sud del mondo possono diventare una grande scuola. Dobbiamo ampliare a tutto il territorio italiano la rete di 'Noi ragazzi del mondo', offrendo a chi vuole aggregarsi dei modelli ai quali ispirarsi. La legge 285 che invita ad animare il protagonismo di adolescenti e bambini, può esserci utile. Contiamo anche sul fatto che il servizio civile possa essere svolto anche all estero, così si concretizza la possibilità per i giovani di essere protagonisti nella solidarietà con il Sud in vista di un'economia diversa, rispettosa dell'uomo e della natura'.
Avete lasciato il mondo dell'handicap?
'Tutt'altro. Stiamo rilanciando su un altro problema, quello del 'dopo noi', che riguarda l'oggi delle famiglie, che devono essere aiutate a sopportare l'impatto che l'handicap ha su di loro, e il futuro degli handicappati stessi che, pur inseriti nel sociale, faranno fatica a vivere quando i genitori non ci saranno più. Le comunità di Capodarco stanno già sperimentando iniziative di sostegno alla famiglia: centri diurni, progetti residenziali... per integrarla nel territorio e poi sostituirla con realtà analoghe, in grado di normalizzare la vita di questi ragazzi e portarli al massimo della loro capacità e autonomia. È un progetto grossissimo, che suppone grandi scelte per noi, che abbiamo fatto per ritornare alle origini e che lanceremo il prossimo anno, dopo un periodo di esperienze e di prove'.