Caro signor A. C.
Il signor Alberico C., di Milano, mi scrive una lettera bella e interminabile, che sono costretto a riassumere drasticamente. Ecco alcuni passaggi significativi: «Perché non riesco a credere, se i miei sono tutti credenti, genitori, sorella e uno zio, fratello di mio babbo, andato missionario in Africa nel '57 e rimastovi quasi dieci anni?... Non si dice che 'buon sangue non mente'? Vuol dire che il mio sangue non è della stessa qualità dei miei? Scherzi a parte, come fare per credere?... A volte mi sembra di avere fede, ma poi, davanti al minimo sacrificio, mi perdo, e sono sicuro di non averla... Ed è possibile comportarsi come se si credesse, pur non avendo la fede? Possiamo sostituire l'anima con la ragione?». Caro Alberico, se sapessi dirti, in modo convincente e quindi risolutivo, quel che hai da fare per avere fede, non sarei la persona che pure, con tanta e mal risposta fiducia, interpelli. Perché? Perché, a mia volta, non sono affatto sicuro di averla; diciamo che credo di credere. Il papà del ragazzo epilettico guarito da Gesù disse: «Signore, io ti credo, ma tu aiuta la mia incredulità !». Non conosco nulla di più umano, umile, innocente di questa testimonianza di fede. Essa, d'altronde, non è qualcosa di assimilabile alla roccia; io, per quel che vale, ne ho un'idea più debole e rischiosa. La paragonerei al giunco, il quale si piega alle ondate di scetticismo che ci investono in vari momenti della vita; per poi risalire, una volta trascorso ciò che l'ha incurvato, con la sua intatta - e magari accresciuta, perché via via allenatasi - capacità di resistere. E poi, consolati: il cardinale Martini, una voce tra le più alte e autorevoli della Chiesa, non ha forse affermato che persino l'uomo di Dio può subire la prova della «fides infirma», cioè della fede incerta?
Il tuo problema, Alberico, è quello di misurarti con questa domanda: si può coltivare la vita interiore anche senza avere fede? Può la sola mente orientare il nostro animo? Certo, la ragione è in grado d'essere anche una guida spirituale e morale, tant'è che il non credente è capace di spiritualità e moralità al pari di chi crede; e del resto, alla storia della civiltà continuano a partecipare uomini di fede e atei, uomini dubbiosi e indifferenti. Ma la mente, hai l'aria di chiederti, può fare a meno dell'anima? Non lo credo, Alberico, ma io non sono un teologo. Penso, però, che la fede abbia bisogno della grazia, mentre la ragione si nutre di conoscenza: e l'una è di una natura del tutto diversa dall'altra. Non voglio, qui, stabilire primati, non vedo proprio come potrei; dico soltanto che se la ragione è il mondo sovrano del pensiero, quello dell'anima è il regno sacrale della fede. A questa si accede facendole corrispondere una premessa fondamentale: il consenso interiore, cioè la disponibilità misteriosa a ricevere quella specie di facoltà - la grazia, appunto - che permette di percepire l'inaudito e l'inconosciuto. Questa - secondo me, Alberico - è la fede. La quale non è comparabile alla conoscenza del mondo - il grande bene di cui ci facciamo capaci qui, sulla Terra - perché tende alla conoscenza di Dio, cioè a un bene che abita al di là di noi, nell'eterno. Mi dirai che c'è anche una trascendenza verso il basso, verso la «santa materia», come la chiamava Teilhard de Chardin; ma la fede è in Dio, il quale comprende tutto, anche la vita terrena, che è creata da lui. La fede, dunque, è la grazia di intuire, sentire e vivere, ovunque e comunque, la presenza di Dio.
Dio, però, non è solo la sua bellezza, Dio sta anche in ciò che non gli somiglia. Ecco perché la fede deve vivere e operare dentro ciò che è umano, non escludendo l'uomo per far posto a Dio. Privilegi del genere, d'altra parte, Dio non ne ha mai chiesti! La fede deve stare qui, ferirsi con noi, vivere le nostre sofferenze e avere la nostre cicatrici; non fondarsi, come forse credi, sugli smarrimenti dell'anima e della coscienza, né tremare al lume della candela o stordirsi all'odore dell'incenso, ma nutrire la sua speranza nella luce dell'anima e dell'intelligenza. Credere «assentendo», dice sant'Agostino, «perché nessuno crede alcunché se prima non ha pensato di credere». Questo, sì, è un ruolo, e persino un primato, della mente. Ma poi si va ai piedi della croce - lo dico simbolicamente, Alberico - non solo per devozione, né pronti soltanto a ricredersi, o a convertirsi, ma anche, e sempre, a rimettersi in causa, accettando che Dio non sia una statua immobile, laconica e illeggibile, ma la nostra stessa, itinerante coscienza. La fede assoluta, ferma come la roccia - lo dicevo all'inizio di questa lettera - è una immagine vigorosa, e tuttavia poco umana. Penso, insomma, che il «sì» a Dio non significhi consegnarsi senza costo, cioè senza rimettere il debito perché altri l'ha già pagato o lo pagherà - chissà se Dio stesso - ma accettare anche il rischio di dubitare, addirittura di mentire e di essere sbugiardati prima che il gallo canti. Ciò sarebbe più grave del non credere. Ritengo, dunque, che quel «sì» debba voler dire misurarsi con la provocazione di Gesù secondo le nostre possibilità : cioè, a ben vedere, secondo le nostre debolezze. Dio, infatti, non ti fa suo usando la sua forza, ma contando sulla tua. Dio non ti strappa da ciò che sei e puoi: si fa cercare e ti cerca, ti lascia libero e ti aspetta. Non ti chiede, Alberico, di fuggire da te stesso, ma di presentarti, se vorrai, con ciò che sei e puoi, cioè col frutto dei tuoi talenti. Non si arriva a quell'incontro già celesti, eterei e al sicuro, perché la rinascita resterà , per tanti, difficile, inconclusa, impossibile. Del resto, nessuno nasce con il sorriso di Dio sulle labbra, si nasce tutti col pianto. Dio ti lascia subito andare, affidandoti, non cedendoti, al mondo. Ti ha fatto per quello che devi essere: una creatura libera, persino di negarlo. Ecco perché non ci si salva mettendo semplicemente la nostra mano sulla sua, per farsi portare, con quel solo gesto, in paradiso. Dio ti lascia camminare secondo il tuo passo, Alberico. Perciò non ti dico «guarda dove metti i piedi», ma ascolta, ogni tanto, la tua bussola interna, della mente e dell'anima. Spesso s'intendono. Anzi, voglio darti l'ultima consolazione. È ancora sant'Agostino ad affermare, anche per te: «Chi non vede che il pensare precede il credere?». Sii dunque pronto, Alberico, a tendere l'orecchio o il cuore, o tutt'e due, alle tue «voci di dentro». Libero anche delle tue risposte. Dopotutto, perché ti fai, e poni, delle domande? Un caro saluto.