«C’è una pallottola che porta scritto il mio nome»
Piccolina, robusta e sorridente. Suor Leonella appariva così a chi visitava il «Villaggio Sos bambini» di Mogadiscio, nonostante i suoi occhi, negli anni, avessero conosciuto ogni sorta di brutture e di malattie – tante, troppe – che colpivano soprattutto i più piccoli e i più indifesi: i bambini.
Forse proprio per questo l’energica suor Leonella, missionaria della Consolata, aveva fatto della sua missione in Africa una ragione di vita. L’ospedale nel quale operava era un punto di riferimento in un Paese come la Somalia, dove non esiste un sistema sanitario pubblico e dove lei, insieme a suor Marzia, suor Annalisa e suor Anna Irene, riusciva a mandare avanti un ospedale, con una novantina di posti letto, in cui venivano prestate cure gratuite. Era l’unico in tutto il Paese e si spera resti aperto anche dopo la tragica uccisione di suor Leonella, avvenuta il 17 settembre scorso. Dopo una temporanea sospensione dell’attività, le sue consorelle potrebbero proseguire il suo lavoro, se le condizioni di sicurezza permetteranno loro di rientrare in Somalia. Suor Leonella e il suo amore per l’Africa ne guiderebbero il cammino.
Nata in Val Luretta, sulle colline sopra Piacenza, suor Leonella, che allora si chiamava Rosetta Sgorbati, aveva trascorso l’infanzia in una casa colonica di Rezzanello, frazione di Gazzola, ultimogenita della famiglia. Aveva seguito i suoi a Milano, al termine delle scuole elementari, e li aiutava nel negozio di frutta e verdura che avevano aperto nel capoluogo lombardo.
La vocazione l’aveva chiamata al servizio del Signore a quindici anni: voleva diventare suora e dedicarsi all’Africa. Nel 1963, a ventitré anni, entrò nelle Missionarie della Consolata, ma solo nel 1970, quando erano mancati i suoi genitori, partì definitivamente per il Kenya e vi rimase per periodi lunghissimi. Le sue consorelle ricordano: «Ogni suora missionaria ha diritto a tre mesi di riposo ogni tre anni. Lei rinunciava spesso a questo periodo per non interrompere i suoi progetti di lavoro, per evitare che qualcun altro dovesse farsi carico dei suoi impegni».
Animata dal suo amore per l’Africa, confortata da un carattere che sapeva vedere sempre una via d’uscita e da una forza d’animo straordinaria, si era diplomata ostetrica e infermiera in Italia. Aveva poi ottenuto il titolo universitario a Nairobi e aveva iniziato a insegnare.
Questa, da quattro anni, era diventata la sua missione in Somalia, in una Mogadiscio terra di nessuno, o meglio, in preda all’anarchia di una guerra infinita tra ban-de rivali.
L’ospedale per i bambini
Suor Leonella lavorava in un Paese pericolosissimo, dove hanno perso la vita religiosi e missionari laici e dove, in un agguato, sono stati uccisi la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin. Qui ha rischiato la vita anche Carmen Lasorella, nota inviata della Rai, mentre l’ha persa Marcello Palmisano, il cameraman che l’accompagnava. Mogadiscio è una città in cui ci si muove solo con la scorta e comunque è facile cadere in agguati e imboscate. In molte zone è rischioso aprire i finestrini delle jeep e proibitivo fare quattro passi a piedi.
Suor Leonella, coraggiosa, altruista, leale, da quattro anni continuava il suo lavoro al «Villaggio Sos», in una zona molto pericolosa della capitale somala, al confine tra il nord e il sud della città, accanto a un check point noto per le perdite subite dai militari italiani impegnati in Somalia nei primi anni ’90.
Una sfida alla guerra assurda
La missionaria piacentina era stata avvisata più volte del pericolo che correva e ogni tanto aveva dovuto restare nascosta all’interno del villaggio per giorni. I viaggi da Nairobi a Mogadiscio erano estremamente rischiosi. A chi le chiedeva se avesse paura, rispondeva: «Siamo nelle mani del Signore e quando Lui lo riterrà opportuno, verrà la mia ora nel modo che Lui avrà disposto». Ultimamente, ai familiari che si dicevano preoccupati per la sua sorte, spiegava che c’era una pallottola con il suo nome, ma «se dovrà succedere succederà, altrimenti la pallottola mi passerà solo vicino». Ad agosto la religiosa ha atteso a Nairobi il visto per entrare in Somalia, che tardava ad arrivare: aveva fretta di continuare la formazione di giovani infermieri.
Suor Leonella indossava sempre l’abito di religiosa, ma talvolta doveva evitare di portare la croce. A Mogadiscio, nel suo ospedale, c’erano novanta posti letto sempre affollati; vi nascevano seicento bambini in un mese, la maggioranza con parto naturale, cinque o sei al giorno con il cesareo. Suor Leonella e le consorelle offrivano un giorno di degenza alle puerpere, quatto o cinque se avevano qualche complicazione. I bambini erano al centro delle loro cure: poliomielite e meningite erano molto diffuse, così come la kwashorkor, una grave carenza di proteine che fa sbucciare la pelle in un modo impressionante. Nella foresteria ospitavano creature abbandonate o malnutrite.
Suor Leonella e le sue consorelle erano un punto di riferimento anche per le donne musulmane che si rivolgevano al «Villaggio Sos» per far nascere e curare i loro bambini. Spesso, nei periodi più turbolenti, venivano avvisate di qualche pericolo imminente e consigliate di non muoversi. Nel 1998 suor Marzia era stata rapita, ma le donne avevano protestato ed era stata liberata in breve tempo.
Una domenica di settembre, apparentemente tranquilla, è fatale per suor Leonella. Stava percorrendo una strada larga una quindicina di metri che separa l’ospedale dalla zona dove sono ospitati circa quattrocento bimbi orfani, quando qualcuno, che conosceva bene le sue abitudini, l’ha aspettata e l’ha uccisa. Ferita a morte, tenendo la mano di suor Marzia, ha ripetuto per tre volte: «perdono».
Ora il suo sorriso è affidato ai quattrocento infermieri che ha formato e ai quali, consumando le scarpe, instancabile, ha trovato un posto di lavoro. Saranno loro a illuminare l’esistenza di donne e bambini senza altra speranza di cura. E a dare testimonianza del messaggio del Vangelo.