Che bello, non vedrò Sanremo
Febbraio in tv vuol dire Festival di Sanremo. È il più lucroso prodotto Rai. Più sicuro ancora della Nazionale di calcio, che in parte dipende dai risultati: se vince e ha allenatore e giocatori simpatici, gli ascolti s' alzano. Altrimenti s' abbassano, gli sponsor si lamentano, e l' intero meccanismo scricchiola.
Sanremo, dunque. Il più antico spettacolo Rai. A dire il vero all' inizio, negli anni Cinquanta, era un festival e basta. La Rai si limitava a portarlo nelle case degli italiani. Allora, negli anni Cinquanta e Sessanta, i cantanti si esibivano sul palcoscenico minuscolo del Casinò. Poi è accaduto qualcosa. Qualcosa di importante, che riguarda la storia della televisione italiana, quindi la storia di noi italiani. Il Festival ha cambiato sede, trasmigrando nel ben più grande cinema-teatro Ariston. È accaduto che, a poco a poco, non era Sanremo a organizzare un Festival ripreso, con soddisfazione, dalla Rai. Ma era la Rai a organizzare un Festival a Sanremo (con adeguata soddisfazione del Comune, ovvio). Nasceva la neotelevisione, che non si limita a raccontare gli eventi, i personaggi, i miti. Ma li crea. La tv che parla di se stessa. Sanremo, dalle tre serate originarie (eliminatorie e finale), è diventato lungo una settimana intera. Perché? Perché tanti sponsor premevano, tanti inserzionisti sapevano che per far conoscere i loro prodotti contemporaneamente a 15 milioni di italiani era lì che bisognava andare. Più domanda di spazi? Alla Rai il compito di offrirli. Così Sanremo è diventato quello che è oggi: un programma lungo una settimana intera.
Mentre scriviamo, sono noti i cantanti in gara e la conduttrice, Raffaella Carrà . Sanremo è fatto così: un po' di tradizione, un po' di innovazione, come un pendolo saggio. Dopo la stagione di Baudo e Bongiorno, avendo colto segnali di stanchezza, per due edizioni è stata la volta dei ricciolini di Fazio. Una lieve brezza, che ha rinfrescato l' ambiente rendendolo accogliente per il ritorno dei monumenti. Raffaella, appunto. Sarà affiancata da una diva, valletta, spalla giovane e carina. E straniera. Stranieri saranno anche alcuni ospiti. Inutile obiettare: che cosa ci fanno gli stranieri a una festa italiana? Alla Rai il prodotto Sanremo costa. Perché sia redditizio, deve venderlo all' estero. Per venderlo all' estero, deve metterci dentro degli stranieri. Tutto qui.
Altra obiezione: da anni, nessuna canzone memorabile. I cantanti non sono né i migliori né quelli che vendono più dischi o riempiono stadi e palazzetti. E allora perché la finale la vedono due italiani su cinque? È la neotelevisione, gente. Ed è il «nostro» (di una buona fetta d' Italia) bisogno di partecipare a grandi riti collettivi. A «liturgie laiche» in cui possiamo riconoscerci. Sanremo non è più, da anni, la festa della canzone, ma la festa della televisione. Per questo «non può» proporre canzoni memorabili, come accadeva negli anni Cinquanta e Sessanta, quelle che tutti, il giorno dopo, canticchiavano per la strada. Non la canzone si celebra, ma il vestito della Carrà , l' amabile gaffe della valletta che non sa una parola d' italiano, gli ospiti del dopo-festival, il finto suicida che minaccia di gettarsi dalla balconata (con Baudo, ricordate?), eccetera. La neotelevisione celebra se stessa e il suo delizioso vuoto. Prepariamoci. Se poi siamo fra i tre italiani su cinque che non vedranno Sanremo, tranquillizziamoci. Anche se nessuno ce lo dirà , siamo pur sempre maggioranza.