Continua la storia di arte e fede
Lasciata la Sala Priorale con le idee più chiare sulla vita e la personalità di sant’Antonio (di cui abbiamo parlato nel numero precedente), i pellegrini ritornano sul sagrato della Basilica, affascinati dalla solida ed elegante bellezza della facciata del tempio. Larga 37 metri e alta 28, alleggerita da cinque arcate rientranti (sopra quella centrale, una nicchia accoglie la statua del Santo), traforata da una loggetta con diciassette colonnine, a sua volta sormontata da una ringhiera scoperta e da un policromo rosone del XIX secolo, affiancato da due bifore gotiche, la facciata è uno splendido biglietto da visita per un monumento che non è solo il più importante della città, ma anche una delle testimonianze più affascinanti dell’architettura medievale. La costruzione della Basilica inizia poco dopo la morte del Santo (avvenuta il 13 giugno 1231), sull’onda della sua rapidissima canonizzazione (30 maggio 1232): giusto il tempo per accumulare il materiale necessario e disegnarne il progetto.
Che cosa prevedeva quel progetto? Una chiesa così com’è oggi, a tre navate, coperta da cupole e campanili, cresciuta nel tempo, ma senza clamorosi mutamenti strutturali? Oppure un edificio più modesto (ritagliato sulla semplicità francescana, cioè a una sola navata con un corto transetto, abside poco sviluppata e copertura carenata in legno), successivamente ampliato fino a subire una radicale trasformazione (verso la fine del secolo) che ha portato il Santuario ad assumere le odierne fattezze, con lo slancio aereo di cupole, campanili e minareti a imitazione della veneziana Basilica di San Marco? Sono questi i termini di una disputa che da tempo contrappone scuole di pensiero.
Nell’attesa che gli studiosi trovino prove risolutive a sostegno delle rispettive ipotesi – suggerisce il religioso che guida i pellegrini –, gustiamoci il fascino di quest’edificio che si segnala per l’armonico intrecciarsi di tre diversi stili architettonici: la robusta compattezza del romanico, gli slanci arditi del gotico e il bizantino svettare di campanili e minareti su una selva di cupole.
Il cantiere di Santa Maria
Ma torniamo al momento in cui l’opera di costruzione ha inizio. Tracciato il progetto, lo spiazzo intorno alla chiesetta di Santa Maria Mater Domini, dove riposano le spoglie del Santo e dove già si recano numerosi pellegrini, diventa un operoso cantiere che coinvolge l’intera città.
Il Comune si attiva mettendo a disposizione una consistente somma; le «fraglie», le associazioni che raggruppano i diversi «mestieri», si tassano; gli stessi usurai, già bersaglio degli strali del Santo, aprono i cordoni della borsa; devoti e pellegrini offrono il loro contributo in denaro o in giornate di lavoro gratuito; architetti e maestranze qualificate limano all’osso i loro compensi…
Poi sul cantiere appena avviato si avventa la mano rapinosa di Ezzelino che, conquistata Padova, si premura di imporre al Comune balzelli tali da prosciugare i rivoli destinati alla costruzione della Basilica, i cui lavori per qualche tempo devono battere il passo. Riprendono con rinnovato slancio dopo la cacciata del tiranno, preannunciata dal Santo apparendo a fra Luca Belludi. La generosità dei padovani e dei devoti, sollecitata anche da un intervento di papa Alessandro IV, permette al cantiere di proseguire senza altri gravi intoppi.
Nel 1263 l’edificio è in grado di accogliere sotto le sue volte le spoglie mortali del Santo. La cerimonia si svolge l’8 aprile, presente il ministro generale dei minori, Bonaventura da Bagnoregio, che effettua la ricognizione dei resti corporei del Santo rinvenendo tra essi ancora intatta la lingua dell’instancabile annunciatore della Parola di Dio.
L’edificio, presumibilmente a tre navate con transetto e abside, si dimostra presto inadeguato ad accogliere il flusso dei pellegrini. Si provvede allora all’ampliamento della zona del presbiterio con la costruzione del deambulatorio e delle nove cappelle radiali affacciate su di esso.
Alle estremità del transetto vengono poi innalzate, a nord, la cappella in cui collocare l’arca del Santo, inizialmente posta di fronte al presbiterio e, verso sud, la cappella di San Giacomo.
La copertura a cupole e i campanili risalgono all’ultima fase della costruzione, che si ritiene sostanzialmente completata intorno al 1310. Da rilevare la forma della cupola centrale, conica, a imitazione di quella che copre il Santo Sepolcro di Cristo a Gerusalemme.
Un inno corale
Solo pochissime e incomplete note per una storia complessa e in parte mai del tutto chiarita. Una cosa, invece, è chiarissima, ed è l’intenzione dei padovani, fatta propria dagli ignoti e geniali architetti e da ogni artista o artigiano che abbia contribuito all’opera, di creare un tempio unico per ampiezza e bellezza, nel quale ogni elemento fosse una nota di un inno corale delle arti e della fede in onore di sant’Antonio e in lode di Dio Creatore che per suo mezzo ha compiuto cose grandi. Un’opera, insomma, che lasciasse con il fiato sospeso per la sua bellezza ma che inducesse, con la sua forma e i suoi simboli, a innalzare gli occhi al cielo.
L’intero complesso, come abbiamo anticipato in precedenti articoli, è lo splendido frutto di queste intenzioni. A partire dalla pianta, con le lunghe navate sulle quale si innestano i due bracci del transetto a formare una croce, come segno della redenzione dell’uomo e dell’universo, attuata da Gesù morendo sulla croce.
Simbolico è anche l’orientamento dell’edificio verso oriente, verso il sole visibile e la città di Gerusalemme, riferimento spirituale al Sole divino, cioè Cristo, «la luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Completano il quadro gli slanci verticali del gotico, che conducono agli aerei spazi delle cupole e dei campanili protesi nel cielo fin quasi a confondersi con esso e verso il quale il pellegrino è invitato a guardare, a rivolgere la supplica e la lode a Dio perché è da là che il divino piove sull’umano per riscattarlo e salvarlo.
Una simbologia affascinante e per noi difficile da decifrare, ma immediatamente percepita dall’uomo del Medioevo.
Ogni secolo, poi, aggiungerà successivamente proprie note al coro di lode al Santo, producendo capolavori d’arte che qui solo elenchiamo, rimandando ai prossimi numeri una più dettagliata presentazione. Se il Duecento è il secolo della fondazione del tempio, il Trecento lo è dei grandi cicli pittorici: di Giusto de’ Menabuoi e di Altichiero da Zevio, mentre il Quattrocento è segnato dalla presenza del Donatello, il grande scultore fiorentino che qui lascia alcuni dei suoi più straordinari capolavori.
Nel Cinquecento, agli inizi del secolo, la severa cappella gotica con la tomba del Santo viene rifatta nel sontuoso stile rinascimentale. Il risultato è, ancora una volta, la glorificazione di sant’Antonio nel suo aspetto taumaturgico, tessuta con la plastica forza dei marmi, dei bronzi e dell’oro.
Anche il Seicento e il Settecento lasciano tracce significative nel Santuario. In particolare, si effettua la «voltura» del coro, in ossequio alle norme liturgiche del Concilio di Trento che non prevedono ostacoli visivi tra il celebrante e i fedeli. Viene rimossa la recinzione rinascimentale che, come un’iconostasi, delimita l’area del presbiterio, mentre il coro, posto davanti all’altare maggiore, viene trasferito dietro di esso. Tutta l’area è poi adornata con marmi policromi all’insegna di una sobria eleganza.
Chiuso il cantiere, se ne apre presto un altro per realizzare un edificio entro cui custodire le reliquie e altre preziose testimonianze della devozione antoniana sparse in vari siti del Santuario.
Dopo altre soluzioni di dubbia efficacia, si opta per la costruzione di un apposito edificio, da innalzare al centro del deambulatorio, oltre il perimetro dell’abside. Il risultato è la Cappella delle Reliquie, un capolavoro del barocco, realizzato a partire dal 1691 su disegno di Filippo Parodi, allievo del Bernini.
L’Ottocento non è un secolo felicissimo per la Basilica. Le soppressioni di Napoleone Bonaparte prima e del Regno italiano poi, con la conseguente riduzione allo stato di sacerdoti secolari dei pochi religiosi rimasti, condizionano pesantemente la vita del Santuario. Che riprende a pieno ritmo verso la fine del secolo, in occasione del VII centenario della nascita del Santo (1195-1895). Per l’occasione, Camillo Boito realizza un nuovo altare maggiore nel quale colloca le statue e i bassorilievi del Donatello, fino a quel momento sparsi per il Santuario, e i tre portoni in bronzo della facciata. Nel contempo, vengono affrescate alcune cappelle radiali, mentre il bolognese Achille Casanova vince il concorso per la ridipintura organica dell’intera Basilica, che verrà realizzata, ma solo in parte, nella prima metà del secolo successivo.
Il Novecento, nonostante due guerre, è un periodo vivace per la Basilica. Il complesso antoniano, chiesa e convento, per effetto dei Patti Lateranensi stipulati nel 1929 tra Santa Sede e Italia, diventa possedimento pontificio. Nel 1939, Ubaldo Oppi, con efficace tratto narra sulle pareti della cappella radiale dedicata a san Francesco d’Assisi, alcuni episodi della vita del Poverello. In tempi più recenti, anni 80, il fiorentino Pietro Annigoni affresca nella Cappella delle benedizioni l’incontro di sant’Antonio con Ezzelino da Romano e la predica ai pesci e, sopra l’altare, un grande crocifisso. Di Annigoni è anche l’affresco di sant’Antonio sul noce, nella parete interna della facciata.
Il sagrato e il monumento al «Gattamelata»
Le chiese quasi sempre si affacciano su uno spazio consacrato, spesso delimitato da recinzioni di varia forma, chiamato «sagrato», luogo in antico adibito pure alla sepoltura dei fedeli e, nel Medioevo, allo svolgimento di «sacre rappresentazioni».
Anche la Basilica del Santo ha il suo sagrato, ampio e perfettamente delimitato, sul quale sostano i pellegrini prima di entrare nel Santuario.
È uno spazio caratteristico che funge da raccordo tra la «città del Santo» e il tempio dedicato al grande Taumaturgo, suo patrono. Su di esso, il 13 giugno di ogni anno, si conclude la solenne e affollatissima processione in onore di sant’Antonio.
Sul sagrato si eleva lo splendido monumento equestre di Erasmo da Narni detto il Gattamelata (Narni, ca 1370 - Padova 1443), opera insigne di Donatello. Sull’alto basamento donatelliano troneggiano cavallo e cavaliere, mirabilmente modellati tra il 1447 e il 1453. L’uomo d’armi, detto il Gattamelata per la «dolcezza de’ suoi modi congiunta a grande furberia», già al servizio dei Pontefici e poi della Repubblica di Venezia e le cui spoglie mortali sono custodite nella Basilica del Santo, è descritto con energia ed equilibrio.
L’opera è tra le più ricche e complete di Donatello. Il monumento è orientato verso la città, quasi a sottolineare il legame profondo tra Erasmo e Padova – da lui scelta come propria patria d’elezione –, ma anche tra la Basilica di Sant’Antonio e la sua città.
Non si può non notare in questa «scelta» una singolare analogia con la vicenda biografica del Santo, che scelse Padova come luogo di missione, dopo aver lasciato altri incarichi nell’Ordine francescano.
NOTIZIE
Marzo in Basilica
1 marzo - Ore 18: Messa della Comunità armena (Sala del Capitolo).
2 marzo - Ore 18: Messa presieduta dal cardinal Maradiaga.
5 marzo - Sacre Ceneri. Oltre l’orario consueto delle Messe, Messa aggiuntiva alle ore 18.
Dal 7 marzo, tutti i venerdì di Quaresima alle ore 13,10: Lettura animata del Libro dell’Esodo.
13 marzo - Ore 20,45: Sacra rappresentazione in occasione del primo anniversario dell’elezione di papa Francesco.
14 marzo - Ore 21: Concerto d’organo del maestro Severin.
16 marzo - Ore 17: Messa presieduta dal delegato pontificio monsignor Vittorio Lanzani.
21 e 28 marzo - Ore 21: Concerto d’organo del maestro Severin.
30 marzo - Ore 12,15: Messa con liturgia bizantino-romena. Presiede S. E. Virgil Bercea, Eparca di Oradea.