DIETRO OCALAN IL DRAMMA DEI CURDI
A l pari dei capi formatisi nella guerriglia che coltivano con cura il proprio mito, anche la vita pubblica e soprattutto privata, del curdo Abdullah Ocalan, presenta i contorni del mistero. Di lui si sa molto poco, e quel che si sa non è sicuro sia realtà o leggenda. Come i turchi hanno chiamato «padre» Mustafà Kemal - diventato Atatà¼rk, il padre dei turchi - che dopo la prima guerra mondiale riuscì a creare la nuova Turchia dalle macerie dell'Impero ottomano, così i curdi chiamano Ocalan, da vivo, «Apo», che non è solo diminutivo di Abdullah ma significa anche «zio». Lo zio, la guida dei curdi sulla via della loro rinascita nazionale. Ma vediamo i pochi dati noti sulla sua vita.
Ha, oggi, cinquant'anni, è nato in un villaggio sulle rive dell'Eufrate. Da piccolo, come tutti i coetanei, giocava con i soldatini ispirandosi alle gesta di Atatà¼rk, che fu uno dei più abili generali della prima guerra mondiale. A scuola, però, si immerge nei libri e diventa un credente islamico molto praticante. La svolta avviene quando va ad Ankara, capitale della Turchia, iscrivendosi alla facoltà di scienze politiche, dove non si dibattono solo idee ma nascono circoli clandestini. Ocalan si converte al marxismo-leninismo che ha il fascino del proibito, essendo vietato dalle severe leggi turche. A contatto con altri studenti di origine curda, coniuga marxismo con nazionalismo. Nel 1978, il giovane trentenne venuto dalla campagna crea, assieme ad altri undici studenti curdi - in tutto sono dodici, come gli apostoli - il Pkk (Partito dei lavoratori curdi), in quel momento una sigla ignota ma destinata a diventare una bandiera per la minoranza oppressa. Il gruppo, però, non era ignoto agli informatori della polizia turca che, in una retata, arresta Ocalan e lo consegna al carcere. Dopo la dura esperienza del carcere turco, uno dei peggiori al mondo, Ocalan esce ben convinto a sperimentare sul terreno i dettami della guerriglia marxista-leninista in versione nazionalista. I militanti si trasformano in peshmerga (partigiani) nei campi di addestramento dell'ala più estremista dell'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) in qualche parte del Medio Oriente. Il 15 agosto 1984 scatta la prima azione: l'attacco a una caserma turca. È l'inizio della lotta armata che si estende a macchia d'olio nei villaggi e nelle montagne della Turchia meridionale e orientale, dove in molte zone i curdi sono la maggioranza della popolazione. Con fiammate, attraverso manifestazioni e attentati, anche nelle grandi città , compresa la perla dei Dardanelli, Istanbul, l'ex Costantinopoli.
Ocalan, ormai diventato «Apo», è la mente politica della sollevazione che dirige soprattutto dall'estero. L'esercito turco, che si vanta di «essere il più forte del mondo» dopo Usa e Cina, lancia campagne su campagne (ne ha numerate più di sessanta in quindici anni) contro la guerriglia, che pare inafferrabile e riesce sempre a risorgere dopo gli annunci di «vittorie finali» da parte dei generali turchi. Neppure i bombardamenti a tappeto sui villaggi (di cui sono vittime le popolazioni civili), neppure i tentativi di accerchiamento entrando in Iraq e prendendo i guerriglieri alle spalle, hanno dato risultati definitivi. Ocalan, per militari e politici turchi, diventa un ossessione, è lui la mente, l'organizzatore, il capo carismatico da eliminare se si vuole davvero vincere.
Ed ecco quindi - siamo ormai alla storia più recente - la minaccia di invadere la Siria dove «Apo» ha trovato rifugio da anni e da dove dirige l'addestramento dei suoi nella valle libanese della Bekaa. La minaccia ha effetto e, a ottobre dell'anno scorso, «Apo» è costretto ad andarsene. Dopo un breve soggiorno in Russia, sotto falso nome, l'arrivo a Roma, aeroporto di Fiumicino, alle 22.00 del 12 novembre.
I dati che abbiamo offerto della sua vita, sembrano quelli «tradizionali» di un capo guerrigliero che, domani, potrebbe trasformarsi in un capo politico, come Mandela e Arafat. A Roma, «Apo» è sembrato affermare con forza questa sua intenzione: ha proposto di rinunciare alla lotta armata, anche alla secessione dalla Turchia, in cambio di una autonomia garantita per i curdi. Per questo si è detto disposto a farsi giudicare da un tribunale equo, se ciò servirà a portare la «causa curda» sul tavolo di un negoziato internazionale. Ha scritto pure al Papa, ribadendo i propositi pacifici. Si tratta di una vera svolta o di una manovra tattica alla ricerca d asilo in qualche parte del mondo?
Contro di lui e contro il Pkk pesano le accuse, sostenute dalla magistratura tedesca e turca, di aver coltivato e commerciato droga per auto-finanziarsi. A ben guardare, accuse analoghe più pesanti e consistenti - assieme al «commercio di uomini e donne» con l'immigrazione clandestina - sono state provate nei riguardi della mafia turca. E gli ultimi due governi turchi sono caduti proprio a causa degli intrecci con questi sporchi traffici.
Ad «Apo» viene rivolta un'altra accusa, quella di «culto della personalità » (ma questo è quasi inevitabile per i «capi carismatici» di un'insurrezione popolare) e di eliminazione dei suoi oppositori interni. Il critico più duro è un suo ex seguace, Selin Curukkaya, che ha pubblicato un pamphlet dove gli attribuisce l'ordine di eliminazione fisica di una cinquantina di oppositori del suo stesso partito. È questo uno dei punti più caldi del «dossier Ocalan» perché come si può definire democratico un leader che non rispetta il dissenso neppure fra i suoi seguaci? Anche Arafat, prima di diventare un politico moderato e «presidente» palestinese, aveva certamente mischiato terrorismo e guerriglia, ma non si era mai macchiato di crimini contro i suoi stessi seguaci (caso mai il contrario, era stato lui a doversi difendere dagli attentati dei suoi estremisti). Ancora meno «Apo» è paragonabile a Nelson Mandela, il presidente sudafricano, anche se non bisogna dimenticare che la Commissione per la verità e la riconciliazione sui crimini commessi durante l'apartheid ne ha attribuiti alcuni anche ai suoi seguaci. Però, al pari di Arafat e Mandela, Ocalan appare genuino rappresentante della giusta lotta per la liberazione del proprio popolo. E i veri responsabili appaiono i dirigenti politici turchi, che rifiutano di sedersi al tavolo del negoziato per trovare una soluzione pacifica, nell'ambito dei confini internazionalmente riconosciuti. Se rileggessero in forma più aperta la storia del proprio paese, ricorderebbero che anche Atatà¼rk, il padre della patria, fu condannato a morte come «fuorilegge» dal sultano del tempo.
L'interrogativo rimane: dobbiamo credere alla «conversione» pacifista di Ocalan? Una delle poche testimonianze familiari, che viene dalla sorella, dice che «Apo» ha avuto alcune svolte nella sua vita, e che tutte le ha vissute con la stessa determinazione. Se così sarà anche questa volta - ma ci vogliono ancora prove certe - , non possiamo rammaricarci di averla «propiziata» indirettamente durante il suo soggiorno in Italia. Malgrado gli innegabili grattacapi che ci ha procurato.