Duecento anni da favola

A due secoli dalla pubblicazione della prima raccolta di fiabe firmata da Jacob e Wilhelm Grimm, le storie dei due fratelli tedeschi riescono ancora ad affascinare i bambini. E anche gli adulti.
21 Maggio 2012 | di

Con la sua mantellina, lo sguardo innocente e i riccioli biondi che spuntano da sotto il copricapo, non le dareste certo i 200 anni che invece ha appena compiuto. Ma Cappuccetto Rosso non conosce la vecchiaia, un po’ come tutti i protagonisti delle oltre duecento fiabe scritte dai fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, e pubblicate nella loro prima raccolta Kinder und Hausmarchën (Fiabe per bambini e del focolare) del 1812. Niente rughe neppure per Cenerentola, Biancaneve e Raperonzolo: c’è un’attualità nelle loro vicende che le rende modelli cui ispirarsi persino oggi, in piena civiltà industriale e con ritmi di vita tutt’altro che favolosi. Una modernità che allo stesso tempo le eleva a valvola di sfogo dello stress quotidiano. Sarà per questo che i personaggi delle fiabe piacciono così tanto agli adulti, oltre che ai bambini: dentro ognuno di noi si nasconde un Principe ranocchio, un Pollicino o una Bella addormentata nel bosco. Non c’è da stupirsi, dunque, se – tra alti e bassi – il filone fiabesco è ora tornato alla ribalta nella narrativa come anche al cinema, nel design e a teatro; se sulla copertina di uno dei maggiori best seller fantasy campeggia una succosa mela rossa (proprio come quella che addentò Biancaneve); se sullo schermo è tutto un susseguirsi di principesse, fatine e streghe. La fiaba è nell’aria, la fiaba ci scorre nelle vene, la fiaba siamo noi.
 
La tradizione immortale
«La tradizione non tutta muore, se tanti popoli la spargono: è anch’essa un dio immortale» scriveva Esiodo (Opere e giorni, 763) nel 700 a.C.
Venticinque secoli dopo, a raccogliere l’insegnamento del poeta greco sono due studenti di giurisprudenza all’Università di Marburgo, in Germania – i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm – che da lì a breve avrebbero messo nero su bianco i racconti popolari della tradizione orale tedesca, attingendo anche al repertorio celtico, alla mitologia greco-romana, alle leggende del ciclo arturiano, oltre che all’esoterismo islamico e cristiano. Prima di compiere l’impresa, i due giovani, originari di Hanau (a pochi chilometri da Francoforte), viaggiano per tutta Europa, conoscono Johann Wolfgang von Goethe e restano folgorati dalle atmosfere oniriche del suo Faust. Consci di vivere in un’epoca di transizione e convinti che la tradizione orale avesse ormai le ore contate, i Grimm (prima di intraprendere la carriera universitaria a Gottinga e di dare vita al più grande dizionario storico della lingua tedesca) si improvvisano cronisti e iniziano una meticolosa raccolta di storielle popolari. «Era forse giunta l’ora di riunire queste fiabe, dato che coloro che le devono conservare sono sempre di meno», si legge nella prefazione alla loro prima antologia del 1812. Si rivolgono così a narratori – perlopiù giovani donne della classe media – disposti a dedicare loro ricordi e tempo libero. Tra questi c’è anche Dorothea Viehman, soprannominata «signora delle fiabe», per via della vasta competenza maturata ascoltando, fin da giovane, le storie dei viandanti, degli operai e degli artigiani di passaggio nell’osteria del padre. Una volta messe insieme le testimonianze, i fratelli Grimm le raffinano, epurandole dai particolari più scabrosi e adattandole ai gusti della borghesia dell’epoca. Non a caso, definiscono erziehungsbuch, cioè «libro educativo», l’edizione del 1819 della loro raccolta di fiabe: «Essi volevano – scrive Jack Zipes in Chi ha paura dei fratelli Grimm? (Mondadori, 2006) – che la ricca tradizione popolare fosse usata e accettata dalle classi medie». Appurato l’intento didascalico e smascherati gli stereotipi e le metafore, però, dietro alle storie rielaborate dai Grimm si nasconde molto di più. Il fatto che Kinder und Hausmarchën, tradotto in 160 lingue, per oltre un secolo sia stato il secondo libro più diffuso in Germania dopo la Bibbia la dice già lunga. E l’accostamento al libro sacro cristiano non è casuale.
Per Ottavio Stellato, autore del libro I tre linguaggi. Dialogo sulle fiabe dei fratelli Grimm (Carta e penna editore, 2010), le favole sono simili alle parabole: «Il popolo le conserva intatte perché non le comprende fino in fondo». Come nella tradizione biblica, infatti, «anche le fiabe sono pregne di insegnamenti esoterici. La loro forza eterna sta proprio nel messaggio subliminale che arriva al cuore del lettore e gli infonde sicurezza».
 
Si scrive fiaba si legge cultura
Chi finora l’ha sempre considerata «letteratura minore» a uso e consumo esclusivo dei più piccoli dovrà ricredersi. La fiaba è un termometro del livello di civilizzazione di una cultura e di un ordine sociale. O, per dirla con le parole di Camilla Miglio, docente di letteratura e traduzione tedesca a La Sapienza di Roma, «la fiaba è parte integrante della tradizione di un popolo. Leggerla non significa regredire intellettualmente, bensì ravvivare lo spirito e guardare il mondo con nuova innocenza». Ma come possono poche semplici parole sortire un tale effetto? «Mostrando al lettore un’immagine da sogno, la favola lo attira in una sala degli specchi e lo costringe a confrontarsi con se stesso e con archetipi forti come la morte, la violenza, l’amore e la famiglia».
Ma se questo concetto in Germania è da sempre ben radicato, lo stesso non si può dire per l’Italia, dove la letteratura fiabesca è stata snobbata fino al ’900. Le novelle trecentesche di Boccaccio, le raccolte popolari di Giovanni Francesco Straparola (metà del ’500) e le fiabe in dialetto napoletano di Giambattista Basile (’600) non sono bastate a riabilitare il genere fantastico nel Belpaese. «Per secoli in Italia ha dominato una cultura alta e codificata, incentrata sulla poesia e sul romanzo per classi colte», conferma Camilla Miglio. Il primo a restituire dignità e valore alla fiaba fu Italo Calvino, cui si deve la prima raccolta nazionale di fiabe popolari. In precedenza solo Dante si era fatto promotore del linguaggio del popolo. E comunque, il riscatto della lingua volgare non avrà vita facile neppure nel XX secolo. Lo stesso Antonio Gramsci, che tra il 1929 e il 1932, rinchiuso nel carcere di Turi, decide di tradurre in italiano ventiquattro fiabe dei Grimm, in una lettera indirizzata alla sorella Teresina parla di «una serie di novelline popolari elementarissime, proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Tradotte per esercizio, per rifarsi la mano e mettere ordine nei pensieri». I pregiudizi, come le abitudini, sono duri a morire.
Così per decenni la favola è rimasta assopita nel Dna della letteratura italiana, salvo ricomparire di tanto in tanto sottoforma di moda fino all’exploit più recente, in coincidenza del nuovo millennio.
«La fiaba non è mai scomparsa; semmai oggi è rientrata dalla finestra. Merito del mercato globalizzato, dominato dalla cultura anglosassone che si rifà al fantasy in salsa medievale – continua la professoressa Miglio –. Ma merito anche dell’espansione di un settore, quello relativo alla letteratura per l’infanzia, che oggi, forse proprio perché ancora giovane, è tra i segmenti editoriali che vendono di più».
 
Cinema
Ciak, si sogna
La mela avvelenata e lo specchio che parla sono una garanzia. Per il resto, tra le tante versioni di Biancaneve che con l’arrivo della bella stagione stanno invadendo il piccolo e il grande schermo, è difficile mettere ordine. Sono lontani i tempi in cui un giovane Walt Disney, trasferitosi a Hollywood da Kansas City, dava vita alla dolcissima principessa sguattera dalla pelle color alabastro. Rispetto al 1937 – anno in cui il cartone animato Biancaneve e i sette nani esordì al cinema – oggi l’eroina tratteggiata dalla penna dei fratelli Grimm nel primo Ottocento è quasi irriconoscibile. Stretta in un’armatura medievaleggiante (vedere per credere la Kristen Stewart di Biancaneve e il cacciatore), agghindata con abiti pop stile ballo in maschera (Lily Collins in Biancaneve), o intenta a scacciare col manico della scopa gli uccellini che le si parano davanti mentre ripulisce la casetta dei nani (Ginnifer Goodwin nel telefilm C’era una volta), la Biancaneve del XXI secolo riflette vizi e virtù della società moderna. E non è la sola. Al cinema sono in arrivo pure Hansel e Gretel nella versione inedita di due giovani aitanti che, a distanza di qualche anno dall’avventura nella casetta di marzapane, si sono trasformati in cacciatori armati fino ai denti. Povere streghe, verrebbe da esclamare! Per non parlare di altri villain della tradizione fiabesca, come Capitan Uncino che nel 2013 se la vedrà con un Peter Pan più irriverente del solito. O, ancora, come la strega del mare, la cui battaglia contro un’agguerrita Sirenetta è già persa in partenza. Chi vede però in questa rilettura delle fiabe una novità si sbaglia di grosso. Fu proprio George Méliès, secondo padre del cinema dopo i fratelli Lumière, a girare, a cavallo del ‘900, i primi corti su Cenerentola e Cappuccetto Rosso, adattando le storie originali a situazioni di vita quotidiana. Dopo l’edulcorata parentesi disneyana fatta di stereotipi e storie a lieto fine, il nuovo millennio ha riscoperto la contaminazione tra fiaba e realtà. A fare da apripista Shrek, il cartoon Dreamworks del 1999, dove un orco riesce a conquistare la principessa Fiona, «strappandola» dalle braccia di un biondissimo principe azzurro capellone. Di qui in poi Hollywood ci ha preso gusto. I fratelli Grimm e l’incantevole strega (2005; nella foto), Come d’incanto (2007), Rapunzel (2010), Cappuccetto rosso sangue (2011), Beastly (2011) e Il gatto con gli stivali (2011) sono solo alcune delle pellicole che hanno cavalcato l’onda del fantastico. In televisione, a fianco delle serie statunitensi C’era una volta e Grimm, persino la Rai (Radiotelevisione italiana) ha ceduto al fascino della fiaba: nella fiction Cenerentola, trasmessa lo scorso inverno su Raiuno, Vanessa Hessler è un’albergatrice romana divisa tra l’amore per il pianoforte e quello per il vicino di casa. Riuscirà a sfondare nella musica? Se è vero che – come canticchiava il suo alter ego disneyano – «i sogni son desideri di felicità», non c’è motivo per dubitarne.
 
web
Il portale fatato
Un portale web che ogni mese raccoglie contributi,  riporta sondaggi e bandisce concorsi. Un calendario  di incontri letterari e conferenze. Quattordici scrittori  pronti a reinterpretare una fiaba e altrettanti vip disposti a parlare della loro storia preferita. Si chiama Grimmland (Mondo di Grimm) il progetto lanciato dal Goethe Institut di Roma, per festeggiare i duecento anni dalla pubblicazione della prima raccolta di fiabe dei fratelli Grimm. Navigando sul sito www.goethe.de si possono anche visitare i luoghi dove i due scrittori tedeschi vissero (grazie al documentario girato dal giornalista Saverio Simonelli). Basta, infine, qualche click per partecipare all’estrazione di un viaggio a Berlino  e lanciarsi in un esperimento di narrazione collettiva tramite Twitter.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017