Farmaci: stop allo spot
Per una volta l`Europa ha fatto di testa sua e non ha seguito a ruota i cugini d`oltreoceano. Nel vecchio continente non si potrà fare pubblicità ai farmaci che richiedono prescrizione medica, come se fossero bibite o detersivi. Lo ha stabilito il Parlamento europeo a larghissima maggioranza, dopo mesi di accese discussioni di cui in Italia non è giunta quasi notizia.
La questione, tuttavia, è molto rilevante, come ha dimostrato l`esperienza di Stati Uniti e Nuova Zelanda, dove questo tipo di pubblicità è consentito da diversi anni.
Nell`anno 2000, per esempio, negli Stati Uniti, la promozione televisiva e su carta stampata ha riguardato per lo più una cinquantina di farmaci, naturalmente i più nuovi e costosi, per trattamenti lunghi.
Ebbene, nello stesso anno si è registrato un aumento della spesa farmaceutica di quasi dieci miliardi di dollari per il maggior consumo dei cinquanta prodotti che giornalmente comparivano sugli schermi e sui giornali.
Ogni giorno, alla tv americana, passa almeno una decina di questi spot, alcuni dei quali non è eccessivo definire agghiaccianti. Ha destato scalpore, per esempio, l`immagine del cadavere di una donna, col cartellino anagrafico appeso all`alluce di un piede, sottotitolata: «Se avesse tenuto sotto controllo il colesterolo, oggi non sarebbe qui».
L`esempio è illuminante di un`operazione di marketing globale che mira a medicalizzare la vita di ogni giorno, trasformando in malattia da curare quelli che sono solo fattori di rischio e disagi personali, secondo la regola per cui c`è una pillola per qualunque cosa.
Medico e paziente come padre e figlio?
I sostenitori della liberalizzazione difendono la loro posizione puntando sulla necessità di informare i cittadini su tutto ciò che l`industria farmaceutica produce, perché possano consapevolmente partecipare alle scelte terapeutiche e, di conseguenza, aderirvi con maggiore costanza.
In altre parole, accusano in maniera implicita gli avversari di mantenere una concezione paternalista del rapporto tra medico e paziente, in cui il primo decide e il secondo si affida a occhi chiusi alle sue scelte. «Non è sostenibile, però, neppure una situazione come quella in cui viviamo oggi ` si lamenta John Larkin, presidente dell`Academy of Medicine statunitense ` nella quale dobbiamo combattere contro malati che vogliono a tutti i costi il farmaco lanciato in tv, indipendentemente dal fatto che non sia il più adatto al loro caso o sia gravato da pesanti effetti collaterali». D`altra parte, è difficile pensare che un`inserzione pubblicitaria di 30 o 60 secondi, in cui si comunica solo il nome del prodotto,costituisca una seria fonte di informazione.
Il guaio è che la pubblicità , per sua stessa natura, non ha nulla a che fare con l`informazione indipendente, ma serve, per definizione, a incrementare le vendite. Il che, in questo campo, significa aumentare la spesa farmaceutica, promuovere un uso non appropriato dei farmaci, creare nuove malattie, convincere persone sane a curarsi.