Fatti di sogno e di memoria
Non importa che sia io, proprio io, quello che tu dici di volere da sempre. Chiunque io sia, se tu senti che c’è in me qualcosa che suscita ancora il tuo amore, qualcosa che tu non hai smesso di ricordare, e che ha resistito all’usura e all’omologazione della vita, prendimi e ricominciamo.
Nel 2077 la Terra è invivibile, perché è stata violentata da un inganno. La versione ufficiale è che gli invasori alieni sono stati sconfitti in un conflitto nucleare, ma hanno distrutto la Luna e ciò ha prodotto terremoti, tsunami e radioattività. Il mondo è desertificato. Qualche splendido ambiente naturale è intatto, ma il resto sono rovine, carcasse di navi, cattedrali-biblioteche sommerse. Gigantesche pompe idrovore (un’immagine mozzafiato) succhiano energia dagli oceani, per rifornire gli emigrati. Le sterili, sconfinate distese di sabbia sono state quasi abbandonate. I superstiti sono ormai su Titano, una delle lune di Saturno.
Restano i custodi, gli spazzini: il tecnico Jack Harper (Tom Cruise) che ripara i droni (velivoli da guerra telecomandati, senza pilota, a presidio dei pozzi d’estrazione) e la sua compagna collega Vittoria «Vika» (Andrea Riseborough). Sono controllori e manutentori, su incarico dei responsabili di missione. Abitano eleganti, spettacolari appartamenti di vetro conficcati in alti speroni di roccia, sopra le nuvole. Qualcuno ha cancellato brandelli della loro memoria, adducendo motivi di sicurezza. Oblivion è appunto l’oblio, l’amnesia, che congela le loro menti. Gli operai perlustrano, aggiustano (con scarsi pezzi di ricambio) e riferiscono. Sono i curatori di un trasloco annunciato e stanno terminando il lavoro: andranno su Titano, come promesso, fra due settimane. Ma qualcosa non quadra. Chi erano i potenti alieni detti scavengers (traduciamo: esseri che cercano fra i rifiuti, animali che s’alimentano di carogne)? Chi sta sabotando il piano d’evacuazione? E perché?
La fessura nell’oblio
Lo spettatore si accorge presto che si parla di lui, del rischio di andare al cinema. Da una distanza di sicurezza gli è consentito contemplare e piangere, sullo schermo, la misteriosa morte di un mondo, che assieme lo seduce e lo minaccia. Gli è permesso assistere a un mito dell’inizio e della fine e domandarsi quale sia il proprio ruolo, sotto un cielo così precario. Lo spettatore conosce l’oblio di chi crede nel racconto. Puoi stordirti con l’oppio della chiacchiera oppure riconoscere in frammenti d’immagine, finalmente, il destino che speravi. Il film Oblivion ha un tratto grafico, fumettistico, computerizzato e nel contempo condensa infinite citazioni di fantascienza. Il cinema non perde le sue memorie: le assimila, le raddoppia, le ibrida nell’attesa che compaia la cosa mai vista prima, la narrazione riuscita, che ne aprirà molte altre. Per questo sei in sala.
Sei in sala anche per un attore, Tom Cruise, bellissimo. Il film Top Gun (Usa 1986) l’ha reso pilota virtuoso, estremo. È un maverick, un indipendente, un vagabondo dello spirito, un dissidente. I famosi duelli aerei si prolungano nelle missioni impossibili (Mission: Impossible è una saga ancora viva, iniziata con la regia di Brian De Palma, Usa 1996), dove all’agente segreto si chiede un supplemento di virtù. Che cosa si vuole da lui? In sostanza, sempre due cose: dominio della tecnica e passione per la verità. Quanto basta per farne, in termini greci, un eroe. Lui, Maverick anche nel nome, il vitello senza marchio, testardo fino all’azzardo, è l’icona in cui lo spettatore contemporaneo proietta e misura la propria etica. Anche se le pellicole nelle quali Cruise ha recitato non sono tutte eccellenti, l’immaginazione fa il resto e il cinema diventa un’esplorazione morale. Tom Cruise galleggia acrobatico in aria, non solo sugli F-14 Tomcat di Top Gun (Usa 1986, dicevamo, regia di Tony Scott), ma anche appeso ai soffitti come ladro funambolo e ora in Oblivion a bordo di elicotteri interattivi, che lui impegna in prestazioni limite. I droni lo riconoscono e lo rispettano. Il cielo di Jack/Cruise è lo spazio transitabile tra una terra amata, ma pericolosa e corrotta, e il freddo vuoto siderale. Tra l’ambiguità degli umani e gli dèi lontani, assenti, distratti. Occorre un semidio per stare al passo della tecnica, per scoprirne le leggi, per dirigerla su una rotta. Perché la tecnica non è una macchina, ma la potenza invisibile che muove l’Occidente.
Il dominio della tecnica
Nel film tutto è governato da una gigantesca piramide rovesciata, un computer fortezza, un nero tetraedro, una colonia spaziale dove siedono i burocrati dei circuiti e dell’organizzazione. È il Tet: la spettrale dimora orbitante che condurrà – si dice – a un’altra terra promessa. Sally (Melissa Leo) è l’immagine umana del programma, che dà le direttive ai sottoposti. Bene o male, dentro al Tet bisogna entrare, per governarlo o sabotarlo. La tecnica è dentro e sopra di noi. È il mondo artificiale, che ci sostiene e assedia. E che ora può persino clonarci, «crearci», come afferma Sally. È come l’universo virtuale, il videogioco labirintico di Tron: Legacy (Usa 2010), altro film di Kosinski. È come il progetto per la prevenzione del crimine in Minority Report (Usa 2002, regia di Steven Spielberg), in cui il comandante (Cruise) è lui stesso minacciato di arresto e dovrà battere in velocità i funesti oracoli. Una volta innescata, la tecnologia è innocente e crudele come la natura: ti stritola o ti regala visioni trionfali.
La passione per la verità spingerà il protagonista di Oblivion a una guerra di liberazione e al sacrificio altruistico. La vita ha senso così: rileggere buoni libri, legarsi a una donna, custodire una casa nel verde, spendersi per gli oppressi. L’alternativa rovinosa è scegliere la banalità del male, fingere di non vedere l’assurdo (i droni che attaccano inspiegabilmente l’astronave amica), tollerare la stupidità in nome dell’efficienza («la vostra squadra è operativa, efficiente?» domanda a Vittoria l’incaricata del controllo), trasformarsi in un doppio senza affetti né memoria, senza ansie né desideri. È il contagio previsto dal film-culto di Don Siegel, Usa 1956, L’invasione degli ultracorpi: chi rifiuta il degrado conformista è trattato da arrogante, folle o criminale pericoloso.
Risuona l’eco della serie cinematografica su Jason Bourne (primo episodio The Bourne Identity, Usa-Germania 2002, regia di Doug Liman, con Matt Damon), tratta dai romanzi di Robert Ludlum. L’ex agente della CIA, Bourne appunto, colpito da amnesia parziale, viene ripescato in mare e ha l’ossessione di sapere chi sia, che cosa gli sia successo, da dove vengano i flash di memoria che picchiano nella sua mente. Chi ha passione per la verità non molla, come Edipo, che vuol conoscere le ragioni della peste a Tebe e trova le sue orrende, accecanti responsabilità.
La ribellione del desiderio
Anche Oblivion si apre con una sequenza in bianco e nero, imprecisa e disturbata. Un frammento allucinato, in cui Jack sembra ricordare se stesso e la sua ragazza – mano nella mano – in una New York intatta, affollata, curiosa. Ma lei (Olga Kurylenko) non è Vika. Lei ha lo stesso volto della bella astronauta, ibernata nel sonno, che precipiterà sulla Terra dopo un’avaria durata sessant’anni. Lei è Julia, l’ex moglie di Jack. Ma lui, Jack, chi è? Forse è un doppio, uno dei tanti doppi generati come forza lavoro per gli invasori. Lui si cerca, ma non è facile. Come distinguere i sogni dai ricordi, i soggetti umani dai loro cloni genetici, i cittadini consapevoli dagli operatori amnesici? Come scrivere il film della propria vita, se non ti puoi fidare né della memoria né del corpo che hai?
Forse però la pretesa di sapere è troppo alta: il sogno s’intreccia sempre al ricordo di un desiderio e la memoria poggia sull’attesa di un futuro sperato. In etica si percorre una direzione di marcia più coinvolgente: tu riconosci quello che sei disposto a servire. Riesci a vedere, se prometti di esplorare. Percepisci l’ingiustizia, se hai deciso di essere giusto. Jack lo impara da Malcom Beech (Morgan Freeman), il capo dei ribelli, che non è affatto un extraterrestre, ma un uomo tenace. L’anziano Malcom seduce Jack con una lusinga: lo ha ammirato mentre Jack guardava e carezzava un volume impolverato. E poi insinua nel giovane un sospetto: che la storia della guerra atomica sia falsa e la promessa di evasione una trappola, l’ennesimo cinico inganno. Credergli o fuggirlo? Jack scommette sul brivido di questa alleanza eversiva.
Essere fedeli alla Terra, sentirla come il proprio corpo, non significa vedere il compimento, il lieto fine del sogno. Si può, si deve piangere un tempo mai vissuto. Si può averne nostalgia. Non importa. Il desiderio di una vita degna e felice animerà altri protagonisti, dopo di noi. Darà loro riparo. Figlio dell’uomo è chi non dimentica, chi ruba il fuoco, come Prometeo, per nuove generazioni, per una nuova pace. La tecnica ripete gesti di potere, non conosce perdono né promessa. Sa come fare, sa come preservarsi ed espandersi, ma non sa il perché. Non valuta il senso del viaggio, non percepisce la bellezza del volo. Memorizza ma non ha memorie. Perché la memoria non è un pacchetto di informazioni impersonali contenute in qualche stanza della mente, è un pezzo di ciò che siamo, è carne che ancora vibra di affetti. «Sogna noi due!» raccomanda Jack. Sognami, quando riconosci qualcosa di me nell’altro che ti avvicina. Così ci farai esistere, me, te e lui. Siamo fatti di questa stoffa comune. La nostra identità coincide con il racconto, in cui crediamo.