Formare la voce, allenare lo spirito
Incede con l’irruenza di un fiume in piena, padre Alessandro, nell’illustrarmi i ruoli da lui svolti nell’articolato meccanismo che sorregge la vita della Basilica antoniana. Parla con competenza di musica sacra, di canti liturgici, di messe cantate. Procede d’impeto, sull’onda di un entusiasmo che gli colora il volto e gli illumina gli occhi.
Padre Alessandro Fortin è originario di Pernumia, borgo della bassa padovana noto per aver dato i natali al drammaturgo rinascimentale Angelo Beolco, detto Ruzante. Al servizio della Basilica del Santo da sei anni, il sacerdote ha il compito di preparare e coordinare i volontari che animano le messe con il canto. Il Santuario antoniano è stato l’approdo naturale del suo percorso culturale.
Diplomatosi in canto al conservatorio, ha poi vinto il concorso per l’insegnamento della musica nelle scuole medie. Ma non ha mai messo piede in aula perché, nel frattempo, aveva deciso di indossare il saio francescano. Era il 1991.
«Questa preparazione di base ha determinato anche il mio futuro – osserva padre Alessandro –. I superiori mi hanno convinto a specializzarmi in canto liturgico e a indirizzare lo studio della teologia sul percorso sacramentario, liturgico e pastorale che ho concluso recentemente, conseguendo la licenza (il grado accademico che precede la laurea)».
E così, quando i novizi, che da sempre animavano con il canto liturgico le celebrazioni eucaristiche, non furono più in grado di farlo per la progressiva esiguità del loro numero, fu naturale che i superiori chiamassero lui a occuparsi della faccenda.
«In realtà – precisa – il passaggio fu più graduale. Inizialmente, i novizi sono stati sollevati dal compito di seguire le messe feriali, sostituiti in parte da una religiosa elisabettina, suor Biancarosa, e da padre Piergiorgio Andreola, recentemente scomparso. Padre Piergiorgio, che aveva la responsabilità del servizio, cooptò una decina di laici che preparò a cantare come si conviene. Quando sono subentrato io, i lavori erano già ben avviati».
Tanto per capire, chiedo a padre Alessandro se tra i suoi compiti ci sia anche la direzione della Cappella musicale del Santo, una delle migliori in circolazione, che da secoli esegue capolavori di musica sacra nelle solenni liturgie della Basilica. Non è così. La Cappella è diretta, dopo la lunga e convincente esperienza di padre Pio Capponi e padre Giancarlo Betteto (dal 1969 al 2006), da un laico, il maestro Valerio Casarin.
«La Cappella musicale – spiega padre Alessandro – canta nelle grandi solennità e in due sole messe. Noi animiamo tutte le altre celebrazioni eucaristiche, naturalmente con canti semplici, ai quali si possano facilmente associare anche i fedeli».
Buona tonalità e giusto spirito
«Il mio compito – continua padre Alessandro – consiste nel preparare e formare gli animatori del canto, provenienti perlopiù da Padova e dintorni e legati da devozione al Santo. A loro si chiede, oltre che una voce gradevole e intonata, di animare le celebrazioni eucaristiche con lo spirito giusto, cioè di chi sta partecipando, insieme con i celebranti, i ministranti e i fedeli, a un’azione sacra. Io cerco di formarli a questo spirito, in collaborazione con il cerimoniere, padre Andrea Massarin, il quale, durante l’anno, tiene dei brevi corsi di spiritualità liturgica, radunando insieme chierichetti, lettori e cantori».
Gli animatori, poi, nel proporre i canti, attingono a un ricco repertorio, più volte aggiornato, raccolto in un prezioso libretto.
I canti, scelti da un’apposita commissione, sono perlopiù quelli tradizionali, universalmente conosciuti, adatti quindi a un santuario frequentato da pellegrini di tutte le regioni d’Italia e di vari Paesi del mondo. Nel repertorio figurano anche canti in più lingue, compreso il latino, con inni, sequenze e salmi affidati alla monodicità lineare del gregoriano. Canto, un tempo, quasi esclusivo nella liturgia cattolica e oggi praticamente dimenticato dalle nostre assemblee, ma che continua a essere presente nel repertorio dei cori stranieri.
Questa attenzione speciale, appassionata, per il canto e per la liturgia, nella quale esso si inserisce, non è sprecata. Se la liturgia è lo spazio dove Dio si fa presente al popolo credente, al quale affida la sua parola che abbatte ogni barriera, e partecipa della sua stessa vita, rendendosi nutrimento di quanti sono affamati di verità e di giustizia, l’impegno perché sia vissuta e partecipata con consapevolezza e con amore, non solo è giustificato, ma attiene allo stesso ministero sacerdotale.
È sempre tempo di miracoli
Padre Alessandro con l’abituale entusiasmo vive anche il servizio di penitenziere, cioè di ministro del sacramento della misericordia e della conversione, al quale dedica una buona parte della sua giornata. Sono i momenti in cui si avverte il miracolo quotidiano della misericordia di Dio, dell’amore di Cristo che riabilita e riscatta dal peccato.
Nel Santuario antoniano i confessionali, un tempo dislocati lungo il deambulatorio e ora nell’apposita penitenzieria, sono sempre stati molto frequentati. È opinione convinta che i veri miracoli, quelli che cambiano il cuore e la vita, avvengono proprio lì, tanto da indurre Paolo VI a definire la Basilica del Santo «clinica spirituale».
Prodigi interiori, ottenuti con la «complicità» di sant’Antonio, si aggiungono a quelli di segno più visibile che, stando al racconto di chi ne è testimone, sono all’ordine del giorno.
«A chi si fida, cioè a chi ha fede, il Signore dona», assicura padre Alessandro, lui stesso testimone di fatti insoliti, straordinari, che ti spieghi solo ricorrendo alla fede.
Ne ha presenti alcuni, che così racconta: «Ricordo un papà: era venuto in Basilica per suo figlio che soffriva atrocemente a causa di un tumore al cervello. Chiedeva al Santo solo una tregua a tanto dolore: “Che almeno non soffra”, impetrava con il cuore affranto. Tornato a casa, trovò il figlio inaspettatamente sereno, disteso, senza dolori. Lo stato di benessere si protrasse nei giorni seguenti, tanto da indurre i familiari a portarlo all’ospedale per verificare che cosa fosse successo: radiografie, tac, risonanze e quant’altro, furono confrontati con esami e referti precedenti tra la crescente incredulità e sorpresa dei sanitari. Morale della storia: il tumore era regredito, non c’era più. Grondavano lacrime di gioia gli occhi di quel papà, tornato in Basilica a ringraziare Dio e il Santo che aveva interceduto per lui – ricorda padre Alessandro –. Che dire, poi, delle straordinarie coincidenze che si realizzano dopo la celebrazione della giornata della vita, la prima domenica di febbraio, durante la quale coppie di sposi chiedono a Dio la grazia di un figlio invano desiderato e cercato? Tornano a casa e quello che non appariva più possibile si avvera. E rieccoli qui a raccontare la loro gioia infinita. Casualità, blocchi psicologici infranti, la natura che ha seguito i suoi percorsi? Tutto è possibile, anche che Dio abbia avuto la sua parte nello smuovere le acque: in fondo ogni bimbo che nasce è un dono del suo amore».
Appuntamenti in basilica
Ricordando padre Luisetto
Una Messa e una nota biografica in occasione del decimo anniversario dalla morte di padre Giovanni Maria Luisetto, che ricorre il 21 giugno. Appuntamento in Basilica sabato 18 giugno alle ore 18 per la Santa Messa. Dopo la celebrazione, nella sala dello Studio teologico, è fissata la presentazione di una nota biografica sul religioso, corredata da numerose testimonianze.
Morto nel 2001 all’età di 84 anni, padre Luisetto è stato direttore della Biblioteca Antoniana dal 1946 al 2001 e compare tra i curatori dell’edizione critica dei Sermones di sant’Antonio, edita dal «Messaggero» di Padova.
Viaggio in alta quota
di Laura Pisanello - foto di p. Giovanni Voltan
Un giro insolito sotto i tetti della Basilica del Santo di Padova permette di scoprire tante curiosità e di conoscere, da una prospettiva nuova, la storia del Santuario antoniano.
Non capita spesso di andare in Basilica del Santo a Padova per un giro turistico in alta quota. Almeno per il momento. Sì, perché in un futuro prossimo questa potrebbe essere una prospettiva concreta per amanti di storia dell’arte o semplici curiosi «armati» di fiato, scarpe comode e abbigliamento sportivo. Forse potranno provare questa straordinaria emozione, accompagnati da una guida esperta, piccoli gruppetti di persone, disposte a fare a piedi molti scalini, a intrufolarsi per ripidi cunicoli e impervie vie in salita che non sono quelle di un labirinto (ma gli assomigliano molto). Sono le vie dei sottotetti, insospettate e piene di sorprese, che percorrono tutta l’immensa copertura della Basilica del Santo e collegano le cupole e i tetti, di cui è in corso un importante restauro, iniziato tre anni orsono e che durerà ancora circa un anno e mezzo.
Sono stati finora restaurati i tetti piani che sovrastano le cappelle radiali, il deambulatorio (lo spazio delimitato dal corridoio che gira intorno all’abside) ed è in corso, al momento in cui scriviamo, il restauro della copertura sopra i transetti; poi sarà la volta del tetto che ricopre le due navate laterali e la Cappella della Madonna Mora. Questo importante intervento è stato possibile anche grazie a un contributo del ministero delle Belle Arti sollecitato dal delegato pontificio S. E. monsignor Francesco Gioia.
Il lavoro di restauro
L’attuale intervento sui tetti, che va a completare il precedente restauro delle cupole della Basilica effettuato nel 1998-1999 in preparazione al Giubileo del Duemila, era urgente perché l’acqua piovana si infiltrava, attraverso le fessure, tra le lastre di piombo e poteva compromettere seriamente tutta la struttura muraria. Le ampie superfici di copertura, realizzate in piombo e legno, erano sorrette da una fitta rete di pilastrini in muratura che poggiavano, irrazionalmente, sulle volte sottostanti in più punti. «I pilastri sono stati eliminati – spiega padre Giuliano, che ha seguito tutte le delicate fasi del restauro – con dei supporti ben più sicuri in acciaio. Il tetto precedente, ricostruito dopo l’incendio del 1749, era stato realizzato con materiali poveri. La maggior parte del legno proveniva dalle navi demolite nell’Arsenale di Venezia. Le infiltrazioni provocavano marcescenze, l’acqua continuava a penetrare fino a rovinare il soffitto interno. È stato necessario – prosegue padre Giuliano – ricostruire questa enorme superficie di tetti con tecnologie e materiali più evoluti, riutilizzando il più possibile il vecchio materiale».
Si è dovuto provvedere anche a una preliminare operazione di rimozione di tutta l’enorme quantità di detriti e di guano lasciato dai colombi che imperversavano nello spazio dei sottotetti. Sono state posizionate reti sulle finestre e sono stati tappati i fori che rendevano possibile l’accesso dall’esterno a questi intrusi non graditi. Sono state messe delle grondaie in rame e titanio. Inoltre si sta ultimando anche il restauro della facciata che guarda verso il chiostro del Noviziato, con la sostituzione dei mattoni più danneggiati (è curioso sapere che fino all’Ottocento la Basilica era intonacata e dipinta di rosso).
Nel corso di quest’opera si sono fatte anche molte scoperte e si è potuto, per esempio, vedere da vicino le varie firme dei capomastri dell’epoca, che essendo analfabeti firmavano il loro lavoro con una piccola scultura.
La cosa sorprendente è che si può visitare la Basilica «appena sotto il cielo», arrivando proprio sotto le otto cupole che sono tutte unite da un percorso che collega i sottotetti. Cominciamo dall’area sottostante la famosa cupola dell’Angelo: la copertura ha la forma di un tronco di cono ed è più alta delle altre cupole perché era pensata per coprire il punto principale della Basilica, cioè la tomba del Santo. Attraverso delle piccole aperture si può scorgere, molti metri più in basso, un celebrante in Basilica; si possono sentire nitidamente le voci dei fedeli o del coro; si può avvertire sul viso l’aria calda proveniente dall’interno. «Questa cupola dalla forma strana – riprende padre Giuliano – riproduce quella antica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Le altre sette cupole e i minareti si ispirano invece a Santa Sofia di Costantinopoli. Dopo la morte di Antonio, l’architetto, probabilmente frate Elia, pensò a un edificio che integrasse nello stile gotico gli elementi caratteristici dell’arte bizantina e un ricordo della Terra Santa. Un progetto unico, dunque, realizzato in epoche diverse». Tra l’altro racconta ancora padre Giuliano: «Nel corso di questi lavori abbiamo trovato del piombo fuso tra vari detriti inglobati, che testimonia il famoso incendio del 1749. Oggi, per scongiurare un’eventualità del genere, abbiamo un sistema antincendio con telecamere e monitoriamo costantemente l’aria delle cupole per rilevare l’eventuale presenza di carbonio; per tutta l’area sono stati posizionati anche dei tubi che, in caso di incendio, fanno confluire l’acqua così in alto». È curioso e interessante vedere, a un’altezza che va dai trenta ai sessanta metri dal suolo, correre questi tubi ma anche le condutture che portano per esempio l’energia elettrica. Ci sono delle aperture da cui si possono manovrare i grandi fari che illuminano la Basilica sottostante. In altri tempi, da questi pertugi i frati, o i loro incaricati, manovravano i lampadari con le candele e posizionavano i festoni che, nelle occasioni solenni, erano posti, per esempio, al centro del coro. Questa «ad alta quota» era dunque una zona della Basilica viva e frequentata, normalmente.
Ammirare le cupole dall’interno è molto bello. Le assi di legno di larice, che si intersecano mirabilmente, provenivano dalle foreste del Cansiglio o del Trentino ed erano state usate per le navi, come testimoniano i buchi sulle assi che ospitavano un cavicchio. Sembra una «ragnatela lignea», unica nel suo genere e diversa per ogni cupola. Sono opere straordinarie dal punto di vista tecnico, testimoni di una civiltà lontana, ma evoluta.
L’emozione merita davvero il viaggio.