Francia, inquieta quel velo negato
Niente velo, o foulard, per le studentesse islamiche che frequentano la scuola pubblica in Francia. Il divieto, sancito in nome della Laicità , viene dopo un lunghissimo dibattito risoltosi non senza lacerazioni. Il Vecchio Cronista che ammira (e ama) la Francia, madre e maestra di libertà , terra d'asilo, fucina d'ingegni, francamente non riesce a capire la logica del divieto. Ognuno ha il diritto di essere diverso e di manifestarlo anche soltanto coprendosi i capelli con un foulard, purché agisca nel rispetto dell'Altro. Codesto diritto è stato riaffermato anche da quella cattedra di laicità ch'è Le Monde cui la direzione dinamica e colta di Colombari ha ridato fiato aumentandone l'autorevolezza. Ma il governo di Parigi non s'è rimangiata la sua decisione, e tocca prenderne atto. Con stupore.
Dice: la pretesa di velarsi in una scuola laica, pubblica, per marcare una differenza, cozza contro il concetto di egalitè. Ma l'eguaglianza autentica non può guardare all'apparenza, non può prescindere dalla volontà del singolo di manifestarsi com'è. Cosa e chi offende il velo delle scolare islamiche? Dov'è il vulnus alla laicità ? Dice: date a Cesare quel ch'è di Cesare, date a Dio quel ch'è di Dio. D'accordo. Ma nella cultura islamica non esiste codesta distinzione.
Nell'islà m il religioso, il politico, il sociale sono un tutt'uno. In Italia la Costituzione afferma che c'è libertà di religione, il che fa sì che una ragazza ebrea possa tranquillamente esibire un ciondolo con la Stella di David, ovvero, se cristiana, una croce e, se musulmana, coprirsi il capo con un velo o un foulard magari di Hermès. Allorché, nel 1978, gli studenti cominciarono a contestare il falso modernismo dello Scià , le ragazze, le donne si misero in testa il foulard, il velo. Oggi le studentesse iraniane che seguono Khatami nel suo pallido tentativo riformista, han dismesso il velo. Non è il simbolo che uccide la Cosa - diceva Hegel -, ma è la Cosa che uccide il simbolo.
Il significato linguistico esatto dello hidjab (o chador, abaya, adjar o entari), del velo, insomma, è sottrarre allo sguardo, nascondere. L'hidjab è la tenda, il recinto, l'imene, trasferisce nell'abbigliamento quella differenza che Dio ha iscritto nei corpi; è l'ostacolo che divide l'uomo dalla donna. Come scrive Nicoletta Diasio (cfr. Leggere n. 31, 1991) è la muraglia cinese dell'Umma, la comunità musulmana unita, la cui origine terminologica è nella parola oum: madre. La felicità e la salvezza della Umma in ultima istanza riposano sulla demarcazione assoluta fra il maschio e la femmina, tra il credente e l'infedele, fra Dio e tutto ciò che esiste.
L'immigrante musulmano che accetta di vivere nella legalità e parità di diritti con l'infedele e con la donna, calpesta i fondamenti dell'islà m a meno che, orfano della madrepatria non si aggrappi al velo della madre-comunità .
Capisco che non sia facile calarsi in tale dimensione esistenziale ma nessuno ci chiede di farlo. Sta al nostro buon senso, alla tolleranza, alla condivisione che il sacerdote ci invita a praticare, sulla scia del Papa, sta a noi farsi una ragione della ragione dell'Altro.
Nel credo islamico coincidono la fede e il comportamento. L'islà m pretende la visibilità , per tanto è impossibile scindere lo stretto legame fra concreto e simbolico.
Per la donna islamica la demarcazione fra lei e l'Altro è quella tenda tirata sopra e fra le differenze, e quindi anche il foulard portato a scuola. Insomma, al centro della religione islamica troviamo la claustrazione della donna, come segno della claustrazione del diavolo (Shaitan) e di rispetto dell'Ordine instaurato da Dio.