A Gerusalemme la chiave per Baghdad?
In questo primo mese del nuovo anno due avvenimenti, due elezioni molto importanti nel Medio Oriente, che forse un giorno saranno definite date storiche. Una abbastanza prevedibile a breve e medio termine, l'altra dagli esiti incertissimi. Parliamo, forse l'avrete già capito, delle elezioni per il presidente dell'autorità palestinesee di quelle per l'Assemblea nazionale irachena. Il 9 gennaio i palestinesi scelgono il successore di Arafat. Il candidato più forte è Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen. Non è un uomo nuovo, anzi, è una figura storica del movimento palestinese. Fondatore con Arafat, nel lontano 1959, di al-Fatah, numero due dell'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), da sempre suo successore designato. Però, in vita, Arafat si tenne ben stretto il potere quando Abu Mazen diresse il governo palestinese per quattro mesi, nel 2003. Rispettato dagli altri dirigenti palestinesi, che gli riconoscono grandi capacità di negoziatore, il settantenne Abu Mazen non ha però il carisma del defunto raà®s (termine arabo che significa una sorta di investitura sacrale) presso la popolazione. Dovrà quindi agire non da capo assoluto, come tendeva essere Arafat, ma con una direzione collegiale, il che è positivo, dato che le istituzioni palestinesi hanno bisogno di riforme e di maggiore trasparenza. Fuori lizza Marwan Barghutti, che, dal carcere in Israele dove è stato condannato a più ergastoli, si era prima candidato e poi ritirato. Appare comunque molto popolare tra i giovani e i paramilitari palestinesi.
Abu Mazen probabile successore
Abu Mazen è, probabilmente, l'interlocutore migliore per riprendere le trattative con gli israeliani. È l'unico che, in campo palestinese, ha avuto il coraggio di definire la seconda Intifada forse un errore. Però, con lui, cadono anche gli alibi a non trattare. Con lui, non si potrà dire, come faceva il governo statunitense a proposito di Arafat, che di notte disfaceva ciò che di giorno aveva costruito per sottolineare una presunta ambiguità . Quindi, le trattative si possono e si devono riaprire. Con ben presenti alcuni limiti.
Dicono, i palestinesi, che non possono rinunciare, per il loro stato, all'intera Cisgiordania, con Gerusalemme est, e all'intera striscia di Gaza, che sono appena un quarto della superficie dell'ex Palestina britannica. Dicono, gli israeliani, che non possono accettare, entro i confini del proprio stato, un ritorno in massa dei profughi arabi, che sono due milioni e mezzo-tre milioni, e stravolgerebbero la natura dello stato ebraico. Ma, entro tali paletti, la trattativa è possibile. Le concessioni che il premier israeliano Ariel Sharon ha enunciato - il ritiro dei coloni dalla striscia di Gaza - sono un primo passo, ma insufficiente. Da soli i due contendenti, israeliani e palestinesi, divisi da un fossato di sangue e di odio, sembrano incapaci di arrivare a un accordo. Ma molto può fare la comunità internazionale.
L'Unione europea, che è la principale finanziatrice dell'Autorità palestinese, ha i mezzi per influire su di essa. Il governo statunitense, se solo lo volesse, ha la possibilità di influire sul governo israeliano che dipende dagli Usa per gli armamenti, i finanziamenti, il sostegno politico. L'ex segretario di stato Colin Powell ha detto che è necessario passare da una posizione attendista a una più forte iniziativa. Il suo successore, la non certo tenera Condoleezza Rice, e, soprattutto, il presidente Bush, lo vorranno, ora che è caduto anche l'alibi Arafat? Dalla risposta dipende una evoluzione decisiva non solo in quell'area, ma per tutto il Medio Oriente.
In Iraq invece l'incertezza è totale
L'incertezza più totale aleggia invece sulle elezioni in Iraq che si terranno il 30 gennaio. Si presenta una miriade di partiti e partitini - centocinquantasei - ma quelli che contano sono al massimo una diecina, e più dei partiti contano i leader. Per garantire il loro svolgimento sono dispiegati i centosessantamila militari della coalizione fiancheggiati da diecine di migliaia di poliziotti e ausiliari della costituenda forza armata irachena. Ma gli inviati dell'Onu incaricati di organizzarle e di vigilare sulla loro regolarità devono essere protetti in ogni momento contro il rischio di sequestro o di attentato. Per votare, sembra che ogni elettore dovrà esibire la carta annonaria, che risale ai tempi di Saddam, nell'impossibilità di effettuare una nuova registrazione. Anche con tutti questi dubbi e contraddizioni, lo svolgimento delle elezioni irachene, sia pure sotto il segno della precarietà , sarà di per sé un momento per l'uscita dal tunnel. Si tratta di eleggere una Assemblea nazionale di duecentosettantacinque deputati - di cui un quarto donne - che avrà funzioni costituenti, cioè dovrà discutere ed emendare la legge fondamentale, o costituzione, approvata provvisoriamente nel marzo 2004. Ma è evidente che il risultato di queste elezioni potrebbe incidere anche sulla composizione del governo.
Iyad Allawi un politico navigato
L'attuale premier Iyad Allawi ha mostrato di sapersi muovere con abilità . Sessantenne, lo sguardo astuto, ha un passato più che discutibile, prima da dirigente studentesco del partito Baas di regime, poi, come esule, da collegato con i servizi segreti britannico, statunitense (leggi Cia) e saudita. Appartiene alla maggioranza di musulmani sciiti dell'Iraq, ma è laico e va vestito all'occidentale. Su di lui si può condividere il giudizio del prestigioso giornale francese Le Monde: Il migliore del peggio. Il presidente, con molti minori poteri, è invece il cinquantenne Ghazi al-Yawar, musulmano sunnita, che viene da una grande tribù e veste secondo la tradizione con jellaba e kefiah a quadretti bianco-rossi. I sunniti, che storicamente hanno dominato l'Iraq, temono di dover passare la mano alla maggioranza sciita con le elezioni. L'unica parte dell'Iraq normale è la zona nord controllata dai curdi e dai loro peshmerga (partigiani).
Esito incerto su come si svolgeranno le elezioni, e sui loro risultati.
Baghdad e questione palestinese
Ma anche a medio termine è difficile, impossibile, fare previsioni sulla tenuta dell'Iraq. Si può dire però una cosa: con il malaugurato intervento in Iraq, Bush sperava, fra l'altro, di trovare a Baghdad le chiavi per Gerusalemme, cioè per risolvere anche la questione palestinese. Oggi la prospettiva va capovolta: è a Gerusalemme, se si avviano nuove trattative per dare finalmente un proprio stato ai palestinesi, che si possono trovare le chiavi per Baghdad, togliendo a guerriglia e terrorismo ogni pretesto. Purché ci sia la buona volontà e non si rimandi, di nuovo, la questione palestinese - che rimane centrale per l'assetto pacifico di tutto il Medio Oriente - alle classiche calende greche.