Giuliano Teatino, il miracolo del giglio
Cerco di imparare un nuovo calendario, il ritmo dei giorni che, in un piccolo paese abruzzese, si ripete ogni anno a metà agosto. Ho scoperto subito di essere arrivato in ritardo a Giuliano Teatino, mille e duecento abitanti, comune agricolo (ciliegie, vigneti), provincia di Chieti, a metà strada tra il mare di Francavilla e il massiccio della Maiella.
Ma non ho certo perso la festa di sant’Antonio, che qui si celebra anche il 19 di agosto dopo quella tradizionale di giugno. Una doppia festa, dunque. Una festa strana, allegra e bella. Il segno forte di una comunità del Sud. «Ci teniamo molto», mi dice il sindaco Nicola Andreacola. Una festa, sacra e laica, di identità.
Sono arrivato in ritardo: Gilda aveva già preparato, nel giorno di ferragosto, il lievito madre. Con una ricetta che si vuole segreta, passata, senza essere mai stata scritta, di donna in donna. Gilda, mi raccontano, l’ha appresa da Amelia, che ora non c’è più. Il giorno dopo, 16 di agosto, un gruppetto di quattro uomini è andato a raccogliere frasche di alloro.
Sanno dove si trovano, hanno cura dei cespugli di questa pianta, che crescono attorno a pozze d’acqua, e ogni anno cambiano luogo per consentire all’alloro di ricrescere. Poi, nella notte fra il 16 e il 17 di agosto, le donne (quasi tutte le donne del paese, decine e decine) si ritrovano al forno per impastare.
Un quintale e più di farina, oltre mille uova, decine di chili di zucchero. Perline dolci come decorazioni. Le donne si sono date appuntamento all’una di notte e fino a mezzogiorno hanno impastato e fabbricato i «taralli di sant’Antonio», «pani» grandi, quasi ciambelle ovali, a volte in forma di pupazzi (c’è anche la raffigurazione del Santo) ricoperti di glassa e lustrini colorati.
Sono dolci che si fanno solo in questo giorno. Io arrivo che già sono stati sfornati. Il 18 di agosto entrano in scena gli uomini: una decina, più di una decina, quasi sempre la stessa squadra. Devono costruire, in una mattina, un carro. C’è un pianale, una intelaiatura di ferro che deve essere ricoperta dai rami dell’alloro e i taralli, con cordicelle, vi devono essere appesi sopra, uno accanto all’altro come addobbo degno dell’abito di un Arlecchino di campagna.
Sul fronte del carro, vi è una vecchia immagine di sant’Antonio. Con il giglio in mano.
Una famiglia del paese ha donato i taralli, ha offerto pranzi alle donne e agli uomini che hanno lavorato, ha pagato le spese (e la somma non è indifferente). È grata al Santo, certamente una richiesta di grazia è stata esaudita, qualcosa di importante è accaduto nell’anno trascorso. La famiglia vuole ricambiare l’intercessione del Santo. Accade ogni anno, sempre una famiglia diversa. Da più di un secolo.
Deve passare un giorno ancora, arriva il 19 di agosto: è la festa, ci sono le luminarie e le bancarelle, la porchetta e le noccioline tostate, alla sera ci sarà il concerto. Alla mattina, invece, tirato da un trattore, il carro ha attraversato, con la banda davanti e i paesani dietro, le campagne e le vie del paese per raggiungere la grande chiesa madre.
Qui è il momento della benedizione in piazza, della preghiera, del ringraziamento, delle offerte, della devozione al Santo più amato. Il carro viene «smontato» tarallo dopo tarallo, lo scorso anno erano mille e ottocento i dolci appesi all’alloro: vengono venduti uno per uno ai paesani che li divideranno con la famiglia e con gli amici al pranzo del giorno di festa.
Devo cercare di raccontarvi di Giuliano Teatino, di questa festa, del sacro e di un mistero in fin dei conti giocoso. Devo dirvi della fede popolare della gente di queste colline. Ma c’è qualcosa che non so spiegarvi: mi sono sconosciute le ragioni storiche di una devozione ad Antonio così forte e radicata in questo angolo di Abruzzo. Mi spiegano: «Il Santo è una persona cara, uno di famiglia, un amico». Mi recitano: «Chi vo’ na grazia, chi vo’ nu sullive, li cerche a Sand’Andonie di Giujane».
Ho chiesto ancora e mi hanno risposto che questa fede «vi è sempre stata». Da Padova, un frate è venuto per la festa, ha portato le reliquie: prega con la gente del paese, predica, benedice il carro.
La statua del Santo, trasportata da una cappella fino all’altare maggiore della chiesa, ha in mano il suo giglio e gli occhi dei paesani sono tutti per questo fiore secco e «vivo». È stato messo nella mano sinistra di Antonio il 13 giugno, il giorno sacro della sua morte. Il fiore bianco era stato scelto da un bambino che aveva appena fatto la sua prima comunione: il giglio più bello, benedetto dal parroco.
Il reportage completo «Il miracolo del giglio», è pubblicato sul numero di luglio-agosto 2019 del «Messaggero di sant’Antonio» cartaceo e nella corrispondente versione digitale!