Gli scatti di una vita
Per parlare di un’immagine, di una fotografia, si tende sempre a dar voce a chi quell’immagine l’ha prodotta, a chi l’ha fruita, apprezzata, criticata, studiata… oppure a chi è direttamente chiamato in causa da quell’immagine perché è soggetto principale della stessa oppure perché è interessato al suo contenuto; o, ancora, perché è presente nell’ambito, nel momento, nell’occasione che quell’immagine ritrae.
Una volta si tendeva a privilegiare unicamente la «fonte», il produttore di un enunciato. Col tempo la platea di chi ha diritto «a dire qualcosa» si è allargata. Ma si dà ancora troppo poco peso e troppa poca voce agli strumenti: a chi, tecnicamente, ha reso possibile la creazione di quell’immagine.
Oggi sono io, una macchina fotografica, a parlare e, dato che sono una Canon FTB degli anni Settanta, di cose ne ho viste e fissate parecchie; abbastanza da farmene un’idea e da notare ricorrenze e differenze, analogie e scarti.
Ricordo che quando ho iniziato a prestare il mio occhio, se si trattava di riprendere cerimonie, viaggi, momenti di vita, lezioni scolastiche, ecc. in cui fosse presente una persona disabile, mi veniva chiesto sempre di darne un’immagine, appunto, di un certo tipo. Gli ambiti in cui mi trovavo a lavorare mi aiutavano non poco a connotare quei soggetti in un determinato modo. Ogni volta lo stesso. Cosa intendo dire? Beh, era immancabile il fotoreportage da Lourdes: quello era un contratto annuale di lavoro garantito. Potevo metterci la firma. E immaginate, o potete ricordare, cosa ne veniva fuori.
Un altro must erano le gite per disabili, ma solo con disabili. Una tentazione alla quale non riuscivo mai a resistere. Poi c’erano le messe o le cerimonie in chiesa dove, inevitabilmente, le prime file erano tutte riservate a loro. Non proprio il massimo: occasioni – e relative immagini – piuttosto malinconiche e ripetitive. Col tempo, qualcosa, lentamente, è andato cambiando. Ricordo di aver accolto con un sospiro di sollievo l’incarico di immortalare alcuni disabili in piazza a rivendicare i loro diritti. E ancora di più quando li vidi in piazza a «pretendere» i loro doveri.
Di lì a poco, le prime commissioni un po’ più interessanti e meno «ghettizzate», anche se ne coglievo benissimo i rischi «etici» e «deontologici», e le possibili derive «sensazionalistiche». Dicevo: incarichi interessanti per ritrarre i primi disabili «famosi», e che non facevano solo versare due lacrime, ma cominciavano a imporsi per quello che sapevano fare. Sembravano mosche bianche, eccellenze in un mare di incompetenze e inabilità. Ma, almeno, si poteva intravedere come, forse, il paradigma stesse cambiando. Al tempo era così.
Negli ultimi anni, ho cominciato a vederne di tutti i colori: realizzavo un servizio sulle spiagge e gli alberghi di Rimini, e li vedevo «scarrozzare» a destra e a manca. Facevo un servizio sull’andamento dello shopping natalizio, e vedevo sempre più carrozzine dentro i camerini, e «carrozzate» a provarsi scarpe con tacco a spillo; cerimonie di laurea durante le quali il presidente di commissione doveva sforzare un po’ l’udito per comprendere parole non perfettamente articolate, ed era costretto a piegarsi per stringere la mano del neolaureato. Ora sto scrivendo dopo aver finito il servizio fotografico di un matrimonio. La sposa, meravigliosamente vestita… con l’abito bianco che stava benissimo con il viola del telaio della carrozzina.
Sono cambiate tante cose. E la mia vecchiaia è più bella della giovinezza, da questo punto di vista. Per un veterano delle immagini come me, a due passi dalla pensione, è un bel congedo. Clic! Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it e sul mio profilo di Facebook.