Identità senza frontiere
Il bisogno e il diritto della propria identità possono anche essere occultati o tenuti nascosti con politiche che favoriscono l'integrazione nelle società d'accoglienza, ma poi rifioriscono. È un fenomeno riscontrato anche quando i flussi migratori del secondo dopoguerra hanno trasferito, soprattutto nei Paesi oltreoceano, folle di persone che hanno fatto fallire il sistema del «Melting Pot». Questo prevedeva la formazione di un crogiolo di razze, culture e tradizioni a beneficio dei Paesi d'accoglienza, ma a danno dell'identità etnica degli emigrati, molti dei quali, per meglio assimilarsi, dimenticarono la loro lingua e cambiarono perfino il loro nome. Oggi la situazione è mutata: c'è un nuovo modello di convivenza, e ovunque emerge la consapevolezza in virtù della quale difendere la propria identità non è solo un diritto, ma un dovere.
Quanto è successo e continua ad accadere nei Paesi dell'Est europeo e in altri Paesi soggetti in passato all'egemonia sovietica, è un chiaro segno del fenomeno: l'identità etnica di questi popoli è riesplosa, e le loro tensioni richiedono ancora gli interventi di mediazione dell'Onu e dell'Unione Europea. Qualcuno si è chiesto se tale fenomeno sia un segno di degrado postmoderno invece di rappresentare il risveglio di tante identità soppresse e trascurate.
Sono problemi che riguardano non solo l'organizzazione sociale, civile e politica di alcuni Paesi, ma anche della vita e delle prospettive future di tante comunità di emigrati che risiedono definitivamente all'estero. Stiamo infatti vivendo un momento storico in cui logiche politiche, economiche e culturali tendono ad omologare lingue, tradizioni e specificità delle singole persone e delle loro etnie. È un processo di sradicamento dalle proprie radici, un'azione di distacco dall'appartenenza al loro retaggio storico, che genera angoscia, aggressività , e «costituisce - come dice Simone Weil - di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Chi è sradicato, sradica».
«Difendendo la vostra identità , non esercitate soltanto un diritto, ma soddisfate anche un dovere: quello di trasmettere la vostra cultura alle generazioni future, arricchendo in tal modo tutta la nazione cilena», ha detto Giovanni Paolo II agli Araucans del Cile, nella sua visita del 1987. Un'affermazione quanto mai attuale di fronte a situazioni sociali e al disimpegno delle istituzioni dei Paesi d'origine di fronte alle iniziative dei Paesi d'accoglienza che favoriscono l'assimilazione dell'identità delle singole etnie, a sostegno dell'unità nazionale, attraverso una mirata gestione politica dei mass media, delle istituzioni educative e formative. Sono soprattutto le nuove generazioni ad aver bisogno di riscoprire il patrimonio culturale dei padri, e quanto esso arricchirebbe la loro identità .
Il sociologo Ulderico Bernardi, studiando i rapporti tra le varie etnie di società multiculturali - come gli Usa, il Canada e l'Australia - sostiene che le linee di sviluppo economico devono procedere di pari passo con una politica d'integrazione rispettosa delle specificità culturali di ciascuna componente etnica: «Relazioni interetniche armoniose arricchiscono la vita comunitaria, in quantità e qualità . L'apporto di nuovi patrimoni culturali, nella reciproca conoscenza, può innescare sinergie capaci di alimentare il dinamismo collettivo, nel costruire una società migliore per tutti». E tra gli agenti ideali di questo disegno egli pone la famiglia, la scuola, i mezzi di comunicazione, l'associazionismo e le chiese (U. Bernardi, La nuova insalatiera etnica, Franco Angeli, pag. 107). Il libro di Bernardi si apre con un interrogativo del poeta e scrittore caraibico Edouard Glissant: «Come essere se stessi senza chiudersi agli altri, e come aprirsi agli altri senza perdere se stessi?». È un interrogativo legato al processo di creolizzazione nell'area dei Caraibi, ma può stimolare vivaci scambi d'opinione tra i nostri lettori.
P. Luciano