Il bello di salire è scendere
Mi scuserete, ma mi ritrovo a scrivere questo editoriale in notevole anticipo sulla tabella di marcia della rivista, ben tre mesi prima! E non so nemmeno se sarò ancora vivo quando sarà pubblicato… Ma l’occasione, che di solito rende l’uomo ladro, talvolta rende anche il direttore ispirato.
E l’occasione è presto detta. Mi ritrovo solo soletto, dopo un’ascesa di un paio d’ore neanche tanto faticosa, in cima a un monte. Ho mosso i primi passi in un’orgia di profumi, colori, rumori che il bosco srotolava attorno a me dopo la pioggia notturna. Qualche brusio sottotraccia qua e là mi fa sobbalzare, ma ci sta anch’esso. Entrando nel folto del bosco, evito di scansare i rami bassi degli abeti, lasciandomi accarezzare da essi, perché oggi ho voglia di coccole concrete del buon Dio. Aquilegie color mosto e azzurre clematidi alpine, tronchi seccati dal fulmine e altri contorti pur di esserci, un capriolo poco più che uno sbaffo marrone che mi attraversa il campo visivo: lo spettacolo delle meraviglie mi ha affiancato fino al cippo della vetta, degnamente sostituendo gli amici con cui di solito mi piace accompagnarmi in questi casi.
Suonerà molto banale, ma questo momento fa molto «francescano». E che stia scrivendo con una preistorica penna a sfera e su un comune taccuino di carta, contribuisce alquanto al tutto. (Due escursionisti di passaggio, gentili ma, per mia fortuna, poco loquaci, mi vedono intento in questa antiquata operazione, mi salutano e proseguono la loro camminata). Mi sembra di intuire il bisogno di san Francesco di interrompere predicazione, servizio ai lebbrosi, condivisione con i fratelli, e tante altre attività, per ritagliarsi spazi, fisici e mentali, di silenzio e solitudine. Perché non si può sempre essere «tesi come una corda di violino», e del resto troppa croce, mia e altrui, diventa impossibile da portare a lungo. E anche questi nostri tempi, tra crisi economica, migranti, corruzione, guerre, persecuzioni, egoismi politici a vari livelli, e altre amenità che l’umanità mai si fa mancare, a un certo punto diventano insopportabili.
Son qui da pochi minuti, ma già mi sembra, sotto strati di silenzio, di percepire rumori dal basso che con fatica provano ad arrampicarsi lungo cenge e burroni per arrivare, anche loro, fin qua. Probabilmente è francescanamente corretto, perché silenzio e solitudine non significano di per sé voltarsi dall’altra parte.
Mi sembra di capire che per Francesco d’Assisi immergersi nel creato, per immergersi nel Creatore di tanta bellezza, comporti alla fine ritrovare nel cuore di Dio tutto e tutti! Mi sfilano davanti agli occhi tanti volti, e lo spazio angusto di questa cima comincia a essere alquanto affollato. Da queste altezze, oltre a intravedere disegni più ampi in cui noi piccoli siamo compresi, si scorgono meglio le scogliere di Ventimiglia e i vicoli di Mosul, i quartieri di Gerusalemme e le discariche di Manila. Ma anche i meandri intricati del mio cuore.
È perciò ora di scendere a valle. Ho la sensazione di avere accanto il Poverello di Assisi, più agguerrito che mai, non con il cuore alleggerito da tanto silenzio e solitudine. Ma più pesante: di affetto per questo mondo e i suoi abitanti!
I rondoni, decisi ed ebbri, hanno cominciato a percorrere sentieri nel cielo che solo loro conoscono. Non posso dire altrettanto di me, e nemmeno tanto di sentieri celesti, bensì su questa terra. Ma mi è un pelino più chiaro che è terra benedetta, perché è la terra che Dio ama e che Francesco canta con gratitudine.
È la mia terra.
Una sniffatina all’acido formico di un brulicante formicaio, per respirare a pieni polmoni, e via!