Il califfato? È il nuovo nazismo
Sul quotidiano torinese «La Stampa» la sua firma è di continuo in prima pagina. È Domenico Quirico a commentare le stragi dell’immigrazione nel Mediterraneo, le efferatezze dell’Isis, le tragiche notizie che giungono dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Lo può fare, perché da inviato ha viaggiato in prima persona sui barconi diretti a Lampedusa, è stato nel cuore di tanti conflitti, dall’Algeria degli anni Novanta alla Siria martoriata dalla guerra civile. Proprio in Siria, nel 2013, suo malgrado ha aggiunto al bagaglio di esperienze la temibile disavventura del sequestro e della prigionia: cinque mesi in ostaggio dei jihadisti, raccontati poi in Il paese del male, scritto a quattro mani col collega di lavoro e di reclusione Pierre Piccinin da Prata.
Quest’anno, sempre per l’editore Neri Pozza, è uscito Il grande califfato, che riprende il filo da una triste constatazione dell’autore: «Quando tornai dalla prigionia (…) cominciai a segnalare questo progetto del califfato che anche altri comandanti mi avevano ribadito, non come un sogno ma come il loro piano strategico a cui si attenevano e collegavano i piani di battaglia. Non ci fu alcuna eco a questa rivelazione», fatta quando ancora si pensava che quanto stava accadendo in Iraq e Siria fosse solo l’ennesimo conflitto interno, prosecuzione delle primavere arabe, sommovimento come tanti in Medio Oriente.
Invece, segnala Quirico, «il totalitarismo islamista era nato, silenziosamente, senza che lo vedessimo crescere accanto a noi». Il libro tuttavia non è un trattato né un catalogo, bensì, come spiega il reporter, «un viaggio vero, con luoghi sfondi strade, città villaggi e deserti, parla di uomini, delle loro storie, delle loro azioni e omissioni». Come si vede, Quirico per gli elenchi ha deciso di elidere le virgole, a esprimere anche con lo stile l’urgenza del narrare e far conoscere: gli abbiamo attribuito la stessa scelta anche nelle risposte a questa intervista.
Msa. Da inviato, lei è stato nel Ruanda del genocidio e nell’ex Jugoslavia della guerra civile. Che cosa sta succedendo di diverso con l’Isis? Quirico. La differenza è l’enormità e la complessità del progetto totalitario. La purificazione del mondo. La costruzione dello Stato geneticamente perfetto. Il parallelo che regge è con i totalitarismi del Novecento, il nazismo e il comunismo, piuttosto che con l’ex Jugoslavia o il Ruanda, dove le proporzioni della violenza erano altrettanto terribili, ma non c’era dietro il gigantesco progetto di eliminazione. Tale discriminazione radicale si basa su un certo tipo di islam che divide gli uomini tra quanti devono sopravvivere e quanti no. È questo che non riusciamo a cogliere della vicenda Isis. Continuiamo a parlarne come di terrorismo globalizzato, o di post intervento americano in Iraq, o – è ancora più ridicolo – di mancata soluzione del problema dei palestinesi, ma sono dettagli che non hanno rilievo rispetto allo scenario che questi fanatici stanno costruendo.
In Il paese del male lei sostiene che il male «sono gli atti di uomini privi di misericordia». Nell’introduzione a Il grande califfato, racconta che l’emiro Abu Omar durante la prigionia le dice: «Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria». C’è uno stridore enorme: di quale misericordia parliamo? È lo stridore che c’è nel comportamento stesso dei jihadisti. La misericordia è autoreferenziale, non riguarda tutti gli altri. È in questo senso che la distinzione inizia: noi siamo noi, loro sono loro, e tra noi e loro non ci può essere che un rapporto di violenza eliminazione negazione. Il nostro dio è grande per i suoi servi in quanto è il nostro dio e non il Dio di tutti. Dunque la misericordia la si esercita soltanto tra i puri, mentre non ha senso con gli impuri, verso i quali non c’è alcun bisogno di essere misericordiosi. Anzi, eliminarli è un atto religioso. Questo è il terribile epicentro del califfato.
Awnee, cristiano iracheno, a proposito dei miliziani le dice: «Per loro Dio è un libro e gli uomini una cosa a cui non hanno mai pensato». Noi definiamo, in modo un po’ frettoloso, ebraismo cristianesimo e islam le «religioni del libro». Non ha senso, perché c’è una bella differenza: il Corano per il musulmano è Dio stesso. L’attenzione è al libro, e gli uomini sono delle appendici di questo rapporto.
Che cosa ne consegue? Non tutti ne ricavano il disprezzo per l’altro… Certo. Non vorrei far credere che io sia islamofobo: non sono né islamofobo né islamofilo. Noto, per aver frequentato i musulmani in certi casi anche involontariamente, che spesso l’islam si esaurisce nella ritualità. Il rapporto con Dio si colma e si compendia nel compiere certi atti rituali: la preghiera, non mangiare determinate cose, l’osservare un digiuno e via dicendo. Poi, ognuno fa quello che gli pare. Certo, anche nelle altre religioni spesso accade. Tuttavia, questa è stata la mia esperienza: preghiera da una parte, e poi il sentirsi liberi di compiere atti anche fragorosamente in contrasto con qualsiasi rapporto religioso. Uccidere gli altri torturarli sequestrarli eccetera. Che c’entra Dio con tutto questo?
Ecco, per l’appunto. Non c’entra nulla, però il loro rapporto con Dio era pienamente portato a termine nel momento in cui avevano in qualche misura osservato certi canoni di comportamento rituale. Nel commettere poi azioni esecrabili, i jihadisti erano convinti di svolgere l’attività pratica che Dio aveva affidato loro, tanto da sentirsi «il braccio di Dio».
Molti hanno l’impressione che ci sia una reazione tiepida da parte di quanti, musulmani, non si riconoscono nell’Isis. È perché siamo poco informati? Come si esprime il contrasto interno? Esiste un islam moderato? La mia risposta è no. Certo, non tutti sono fanatici, non tutti praticano quel tipo di islam radicale. Tuttavia, in questo tempo, l’islam radicale battagliero annessionista implacabile è prevalente. Nel senso che detta a tutto il mondo islamico gli ideali il progetto politico i sogni… L’islam violento brutale fanatico rivoluzionario del califfato è l’unico di cui c’è traccia in ampie zone dell’Africa e del Medio Oriente.
Tutto il resto, se mai è esistito, è stato spazzato via. Troppo comodo fare splendide affermazioni moderate e tolleranti al calduccio di luoghi dove nulla può venire di male. Andate a farli a Mosul questi discorsi se ci credete, alle periferie del Cairo, in Libia, in Nigeria. Allora comincerò a credere che l’islam moderato diventa effettivamente operante. Per adesso, ovunque vada vedo solo strepiti minacce grida di vittoria dell’altro islam.
Dov’è l’Onu in tutto questo? E dove è stato in tutte le grandi crisi degli ultimi decenni? Mi chiedo se sia ancora utile tenere in piedi una burocrazia legata a una fase storica superata. Andava bene nel contesto della guerra fredda: era una perfetta camera di compensazione per due nemici che già avevano stabilito l’impossibilità di arrivare al grado estremo del confronto, cioè la guerra. Ma ora… Se l’immagina l’Onu che inizia una mediazione tra il califfato e, per dire, gli Usa? Il califfato non ha nessun interesse del genere, nella loro ottica non esiste la possibilità della diplomazia.
Che fare allora? Intervenire militarmente? Intraprendere qualche azione di altro genere? Lei cosa auspica? Non credo che in questo momento l’Occidente possa determinare cosa fare. L’iniziativa è in mano ad altri, perché l’Occidente è fragile debole incapace di assumere certe decisioni. Nessuna classe dirigente in nessun Paese occidentale – Usa compresi – può giocarsi il proprio destino politico in una guerra contro il califfato, sostenendone le conseguenze in termini di perdite umane economiche sociali... Dunque non ha molte alternative se non cercare qualcuno che combatta al posto suo: lo trova, ma parzialmente, cioè solo fino al punto in cui è utile a interessi particolari. È il caso degli iraniani, dei curdi e via dicendo. Ci resta la possibilità di giocare di rimessa, cercando di contenere e lasciando agli altri l’iniziativa. Per ora passiamo le giornate a stupirci di fronte alla brutalità, al moltiplicarsi dei fronti che questi scatenati aprono in continuazione. Penso sarà questo lo scenario anche dei prossimi anni, fino a quando sarà lo stesso califfato a decidere, perché si sentirà sufficientemente forte, di passare a un grado successivo di sfida, costringendoci a scendere in campo. So di essere molto pessimista, ma il califfato è tutt’altro che una piccola storia di terrorismo pittoresco, come viene sciaguratamente disegnata da tanti giornali.
Nel libro ben chiarisce il confine tra Isis e Al-Qaeda, la rivalità, la divera strategia. Con gli attacchi di Parigi, di Tunisi, in Kenya sembra però che Isis abbia fatto proprio anche lo stile di Al-Qaeda: siamo a una nuova fase? Credo siano episodi abbastanza marginali rispetto alla strategia complessiva del califfato. La loro urgenza è il mantenimento dei territori che già controllano, il consolidamento e l’allargamento fino a formare un enorme Stato unico. Poi verrà, se verrà, il momento del confronto diretto con l’Occidente. Certo, gli attacchi terroristici servono perché determinano propaganda paura incertezza. Il terrorismo tradizionale fa parte del loro sistema, ma non ne è il nucleo, come invece era per Al-Qaeda. Il problema del califfato è tenere Mosul. Prendere i pozzi di petrolio iracheni. Avanzare in Libano o altrove. Consolidare il dominio in Libia. Cacciare l’esercito nigeriano da Jos. Sono progetti territoriali di un nuovo totalitarismo con cui dovremo fare i conti.