Il coraggio di infrangere certi muri di complice silenzio

Ecco quando bisogna "dire" parole anche scomode per perforare l'ovvietà che ci circonda.
30 Marzo 2005 | di

Sapienti e astute le mamme! La mia, quando ero piccolino, me lo diceva sempre: non mi preoccupo quando ti sento, quando stai facendo troppo rumore... mi preoccupo quando non ti sento, quando c'è troppo silenzio! Una madre sa che quel silenzio improvviso che proviene dalla camera del figlio, indica qualcosa di brutto. E si precipita a intervenire perché annusa un pericolo nell'aria, o comunque intuisce che il piccoletto ne sta combinando una delle sue. Immersi come crediamo di essere nella comunicazione globale - dove tra telefonini e internet ci crediamo la generazione-che-comunica-senza-barriere - dimentichiamo di fare piuttosto tesoro di questa infallibile intuizione che ogni mamma si porta in dote: assediare il silenzio, romperlo quando diventa troppo assordante, assalirlo quando ci sta circondando, ficcarvisi dentro nel momento in cui tutti, attorno a noi, ci esortano piuttosto a starcene buoni, ad allinearci, a non andarcene in cerca di guai. Perché è silenzio, della peggior specie, anche il muro di parole con cui ci impediamo e ci impediscono di pensare con la nostra testa.
Dobbiamo farne, perciò, quasi la nostra linea esistenziale. Consapevoli che, proprio perché non siamo mamme, andremo inevitabilmente incontro a errori e travisamenti. Ma siamo, però, giovani, e queste cose in realtà  le sapremmo fare molto bene, perché ci sono in qualche modo connaturali. Magari con un po' d'aiuto da Francesco d'Assisi e da Antonio di Padova che di questa faccenda se ne intendevano.


Quando e che cosa dire

Dire, oddio, tentare di dire, una parola dove e come ben pochi la stanno dicendo.
Dire una parola diversa, dove tutti o quasi si allineano tranquillamente da una stessa parte. Dove tutti accorrono supinamente al grido alla guerra, alla guerra!, cercare di intravedere parole alternative, nuove.
Dire, osare di dire una parola scomoda, pericolosa, fuori dai ranghi. Assumendosene la responsabilità .
Dire, e con ciò tentare di perforare l'ovvietà  che ci circonda. Dire, e perciò subito anche ascoltare.
Dire, eccome, anche con il nostro silenzio: quando non è disimpegno o viltà .
Dire, cioè non lasciare sempre al portavoce di turno di parlare anche a nome nostro.
Dire, prestare le nostre parole a chi ormai non ne ha più da spendere, perché da tempo, da troppo tempo inascoltato o preso in giro.
O a chi non è in grado, per vari motivi, di dire la sua o non conosce le parole giuste o parla altre lingue.
Certe volte, anche semplicemente dire: perché non c'è niente che non possa essere detto, se fatto con rispetto e umiltà , e molte volte la paura nasconde il vuoto delle nostre parole. Il silenzio con cui avvolgiamo ciò che mette in crisi i nostri saperi e le nostre presunte conoscenze. Mentre le cose, gli eventi, i sentimenti, le esperienze, ciò che ci portiamo dentro, non aspettano altro che parole che li contengano, che li dicano.
Anche quelle cose che sembrano più ripugnanti o indegne, e che, spesso, una volta tirate fuori dal silenzio (anche dai luoghi comuni con cui spesso le esprimiamo, che è lo stesso), fanno meno male. Sembrano persino un po' più belle e meno pericolose di quel che non sembrasse.
Solo a questo punto, solo, cioè, dopo aver rotto il silenzio possiamo permetterci di stare in silenzio.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017