Il monsignore dei poveri
Inaspettatamente, per un attacco di cuore, lo scorso 12 ottobre s'è spento nell'ospedale milanese di San Raffaele, dove era da qualche giorno ricoverato per accertamenti, monsignor Luigi Di Liegro, l'amico più caro, il punto di riferimento più sicuro di tutti i poveri, barboni, immigrati, drogati o diversamente disagiati che cercano di sopravvivere a Roma. Da quando lo avevano fatto direttore della Caritas della capitale, nel 1980, Di Liegro aveva aperto mense per i poveri a Colle Oppio, a Primavalle e poi vicino alla stazione Termini; aveva creato centri di assistenza per i malati di Aids e una rete di aiuto per anziani non autosufficienti. In sintesi, con 1500 volontari a disposizione serviva 2 mila barboni, 110 mila extracomunitari, 100 mila anziani e moltissimi zingari, 'un san Francesco redivivo' aveva confessato ammirato Federico Fellini.
Don Luigi Ciotti, del Gruppo Abele di Torino, l'ha definito 'un prete scomodo, un credente rigoroso, un cittadino fortemente impegnato'. E il cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, 'un prete che con totale dedizione ha servito Cristo nei poveri'.
Quando insorgevano problemi, conflitti che coinvolgevano i poveri, Di Liegro non ebbe mai dubbi da che parte stare, cioè da quella del più debole, di chi maggiormente soffriva per il disagio e l'esclusione. 'Lo faceva per sensibilità e per istinto - scrive don Ciotti - prima ancora che per convincimento morale e culturale'. Anche se tali scelte gli procuravano più di un nemico, anche tra i potenti. Nel 1974 quando con il cardinale Ugo Poletti organizzò il famoso convegno sui mali di Roma, i democristiani che amministravano la città , lo presero come una severa critica al loro operato e se la legarono al dito.
Nel 1988 la 'Roma bene' dei Parioli osteggiò duramente il suo Centro per malati di Aids, ospitato a Villa Glori al centro di un parco ritenuto 'in': qualcuno giunse perfino a schiaffeggiarlo. Ma non si diede per vinto e alla fine, dopo un esposto, il Tar del Lazio gli diede ragione. Anche quando trovò un posto di lavoro nella sua organizzazione per Renato Curcio, leader delle Brigate rosse, dovette affrontare un monte di polemiche, alle quali rispose citando san Paolo: 'Siamo stati riconciliati da Dio e abbiamo ricevuto il ministero della riconciliazione'.
Serviva i poveri senza retorica, senza guardare alle idee politiche, al colore della pelle. I poveri erano tutto il suo impegno, la sua stessa preghiera: 'Quando trovo un anziano - diceva - un ammalato, un barbone, un immigrato, cerco la presenza del Cristo: lì trovo la mia preghiera'.
Povero lo era stato anche lui. Era l'ultimo di otto figli (era nato nel 1928) di un pescatore di Gaeta che aveva dovuto emigrare in America (una volta anche clandestinamente, ma fu subito rimpatriato) per mantenere la famiglia. Ordinato sacerdote, emigrò in Francia e in Belgio, dove fece il prete operaio nelle miniere. Tornato in Italia, ebbe per qualche tempo incarichi in curia e, dopo l'esperienza del convegno sui mali di Roma, venne eletto direttore della Caritas diocesana. Qui ebbe modo di concretizzare la sua idea di prete. 'Il prete è - diceva - un punto di riferimento per chi cerca di consolidare la sua speranza. Egli deve incarnarsi nella storia, inserirsi nelle vicende drammatiche, essere quello che Gesù è stato'.
In agosto, ospite al campo scuola del Gruppo Abele, a conclusione di una serie di riflessioni sull'immigrazione, aveva celebrato l'eucarestia con don Ciotti. Al termine del rito, togliendosi la stola, l'aveva posta sulle spalle di un musulmano presente alla messa. 'Con quel semplice gesto - commenta don Ciotti - ha ribadito il grande valore che l'intera sua vita ci ha testimoniato: le differenze di pelle, di religione, di culture, sono una ricchezza non solo da accogliere per fedeltà al Vangelo e per una cultura di libertà e tolleranza, ma anche da cogliere come grande messaggio di pace, giustizia e speranza, di rispetto integrale dell'uomo. E quindi di Dio'.