Il razzismo? È quadrato
Ormai nei nostri stadi i fischi ai giocatori di colore sono all’ordine del giorno, regalando del nostro Paese un’immagine di certo non molto ospitale… Il pericolo del razzismo è sempre in agguato e cresce nei tempi di magra, quando è facile mettere in atto meccanismi di rivalsa scorgendo nell’altro, in cui ci si specchia, lo spettro del rischio. Eppure, chi di noi non ha uno zio d’America, emigrato in cerca di fortuna in terra straniera?
A questo proposito, qualche tempo fa a Milano ho preso parte a un’interessante manifestazione antirazzista, legata per l’appunto al gioco del calcio. Sto parlando di un torneo davvero inclusivo, nato nell’ambito del progetto «W il calcio!» e dedicato alla memoria di Arpad Weisz. Chi era costui? Nato nel 1896 a Solt, in Ungheria, da famiglia ebrea, Arpad è un punto di riferimento storico tra gli appassionati del pallone e non solo. Già allenatore del Bologna e dell’Inter, la sua figura si è distinta a suo tempo soprattutto per la passione che sempre lo ha legato alla cultura calcistica e che ne ha fatto un testimone attivo d’inclusione, nonostante la prematura morte nel 1944 per mano dei nazisti.
Così, mentre guardavo la partita, ho avuto una specie di folgorazione. Mi è venuto da pensare: «Il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato». Fateci caso: il pallone porta in sé l’idea e la forma del cerchio, che avvolge, ingloba, che permette di guardarci l’un l’altro mantenendo lo sguardo sullo stesso livello. Il quadrato, all’opposto, è figura emarginante che può indurci a sostare sugli angoli. Il quadrato ha quattro spigoli: il primo si chiama «pregiudizio», il secondo «non riconoscimento dell’altro», il terzo «essere costretti in un sistema chiuso», infine, il quarto «non lasciarsi coinvolgere».
Il pallone, inoltre, può rimbalzare, saltare, passare da un piede all’altro, è in continuo movimento. Il quadrato invece è statico, rimane racchiuso nei suoi confini. Così, il pallone è illimitato tanto quanto il limite è il tratto del quadrato. Sostare sui margini senza gettarsi al centro del campo significa proseguire su binari paralleli che non si incontrano mai, e di conseguenza generare spigolature isolate. Il pallone, al contrario, ci insegna a uscire dal campo e a rientrarci da angolazioni diverse.
Una metafora semplice, certo, quella del pallone e del quadrato, che tuttavia rende bene l’idea e l’immagine del razzismo, che è un limite dello sguardo, una strettoia che non conosce, perché sceglie di non voler uscire da sé.
Quello che colpisce, inoltre, nonostante l’impegno di molti per azzerare le distanze, è la libertà linguistica, la «normalità» con cui oggi vengono perpetrate certe accuse, negli stadi ma anche su piani ben più alti, come se i luoghi comuni – inibiti dalla cultura o dall’educazione – trovassero lì un’esplosione che sa di uso comune più che di eccezionalità. La diversità genera pregiudizio perché fa paura, perché non la conosciamo. Per questo la evitiamo o la insultiamo: un comportamento che, lasciatemelo dire, in fondo è la stessa cosa.
Ciò detto, io me ne ritorno in campo, tra la polvere, a ricordare le gesta di Arpad Weisz. E voi, vi sentite più rotondi o più quadrati?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.