Il terzo tesoro del Santo

Padre Alberto Fanton ci guida alla scoperta della Biblioteca antoniana. Quasi ignoto al grande pubblico, poiché non è inserito nei tour devozionali, questo tesoro letterario conserva documenti di inestimabile valore storico e culturale.
27 Dicembre 2011 | di

Potremmo considerarla il «terzo tesoro» del Santo. Dopo le spoglie mortali di sant’Antonio, per custodire le quali è stato eretto il Santuario, e dopo i preziosi oggetti conservati nella Cappella barocca di Filippo Parodi – detta, per questo, «del Tesoro» –, il terzo tesoro è la Biblioteca antoniana, apprezzata e consultata soprattutto dagli studiosi medievalisti. La sua fondazione si può far risalire ai tempi di sant’Antonio come «libreria» dell’antico convento padovano, a supporto dell’attività pastorale dei francescani che vi abitavano. Si è poi ingrandita con l’acquisizione di sempre più numerosi e pregevoli manoscritti. Meritevole, quindi, di sedi adeguate, fino a quella attuale, con l’ampio salone allestito tra il 1698 e il 1711, lungo le cui pareti sfilano ventiquattro grandi armadi in radica, mentre al centro fanno bella mostra di sé due globi perfettamente conservati, costruiti dal geniale cartografo e incisore padre Vincenzo Coronelli (1650-1718).
Caso forse unico tra le antiche biblioteche, quella antoniana è riuscita a mantenere sostanzialmente intatto il suo dovizioso patrimonio, essendo stata solo sfiorata da razzie e dispersioni.
La Biblioteca, tuttavia, ha subito i contraccolpi delle vicende politiche italiane, fino a diventare, in ottemperanza ai Patti Lateranensi del 1929, proprietà della Città del Vaticano, unitamente agli edifici che compongono il complesso del Santo. Da qui il titolo di «pontificia» di cui essa può fregiarsi. I frati minori conventuali della Basilica del Santo hanno mantenuto, lungo i secoli, la direzione e la cura della Biblioteca, attualmente affidata a padre Alberto Fanton, padovano, 43 anni, che nel silenzio ovattato del bel salone settecentesco, pregno di cultura e di suggestioni, si muove con competenza e passione.
 
«Sermones», il pezzo più prezioso
Padre Alberto, entrato giovanissimo in seminario, a Camposampiero, ha percorso serenamente il cammino di formazione francescana: dopo il liceo a Brescia, il noviziato nella Basilica del Santo, la professione religiosa, lo studio della teologia e, infine, l’ordinazione sacerdotale, seguita da una trasferta a Roma per conseguire, all’Università Gregoriana, la specializzazione in teologia spirituale.
Ritornato a Padova, padre Alberto riceve l’incarico dell’insegnamento nell’Istituto Teologico Sant’Antonio dottore, e diviene, poco dopo, direttore della Biblioteca provinciale. Su proposta del superiore provinciale, nel 2009 la Santa Sede lo nomina direttore della Biblioteca antoniana.
«Ho dovuto rimettere a punto le nozioni che avevo appreso sulle biblioteche antiche – sottolinea padre Alberto – perché realtà come questa non le puoi adattare ai criteri moderni che hai imparato».
Il codice più antico? chiedo a padre Alberto. «Negli anni sono stati acquisiti codici e manoscritti anche anteriori all’insediamento francescano. Abbiamo almeno due importanti codici del secolo IX. In uno di essi, davvero prezioso, il manoscritto I-27, viene trattato il tema del calcolo del tempo che suscita ancora la curiosità degli studiosi di astronomia».
E il più «prezioso»? Padre Alberto non ha dubbi: «Per noi francescani, il più prezioso è il manoscritto XXIV-720, identificabile con il codice donato ai frati, nel 1237, dal magister Aegidius, canonico della cattedrale di Padova, che contiene tutti i Sermones di sant’Antonio. A tale data, il Santo era morto da soli sei anni. Quindi, chi ha re­datto la copia dei suoi Sermoni, con ogni probabilità ha potuto usufruire di testi di prima mano. Su di essa si sono basati gli studiosi per redigere l’edizione critica dei Sermoni».
 
Una galleria di codici e incunaboli
Nella Biblioteca sono conservati 828 manoscritti, 600 dei quali di epoca medievale, compresi 41 grandi libri corali del XIV secolo per la preghiera liturgica, ornati da preziose miniature.
Completano il ricco repertorio 230 incunaboli (stampati con caratteri mobili tra la metà del XV secolo e l’anno 1500 incluso), raccolti in 195 volumi e 3.200 edizioni del XVI secolo (cinquecentine).
Pescando nel dottissimo «fondo» dei codici medievali (i «fondi» sono i settori in cui è articolata la biblioteca, ndr), padre Alberto cita, come esempio, alcune delle perle in esso contenute. A cominciare dalla preziosa Bibbia glossata parigina in 25 volumi, con miniature del magister Alexander, direttore di uno dei principali atelier di Parigi, donata verso il 1240 dal canonico della cattedrale, Uguccione.
Prosegue con il Messale, molto bello e di grande valore, decorato con miniature a tutta pagina, offerto nel 1461 da Bianca Maria Visconti Sforza, duchessa di Milano, come ex voto per la guarigione del figlio, Lodovico il Moro.
Tra le rarità, padre Alberto menziona il codice 322, contenente alcune opere (riprodotte di recente in copia anastatica a uso degli studiosi) di Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese vissuto nel XII secolo che ha segnato, con i suoi scritti, la teologia e la filosofia del suo tempo. E il Trattato sulla Trinità di Acardo di san Vittore, opera sconosciuta, rinvenuta negli anni Cinquanta dalla studiosa Marie-Thérèse d’Alverny.
Tra le curiosità, la lettera di Ghezo a Vanni del 1314, con grafia quasi indecifrabile, un documento di capitale importanza per la formazione della nostra lingua.
Chiarisce padre Alberto: «Abbiamo anche documenti importanti della prima generazione francescana, come uno degli iniziali esemplari di Ordo breviarii et missalis francescano (il calendario delle messe e delle festività liturgiche), databile alla seconda metà del Duecento, e ancora tutto da studiare».
 
Gli altri «fondi»
Altri «fondi» impreziosiscono il già ricco patrimonio della Biblioteca antoniana: l’Archivio della Veneranda Arca del Santo e l’Archivio musicale.
Il primo conserva, in oltre 250 metri lineari di scaffali, la documentazione dell’attività amministrativa della Veneranda Arca, dalla sua fondazione fino a oggi: aride cifre, noiosi atti, che possono però tramutarsi in fonti preziose di notizie sulla storia del santuario e sull’attività di grandi artisti che in esso hanno operato, come Donatello, Altichiero da Zevio, Parodi e altri, i cui compensi, con tutte le spese sostenute per la realizzazione delle loro opere, sono minuziosamente registrati.
Il secondo fondo si ricollega alla tradizione musicale del Santuario. Sin dalla fine del Quattrocento, le liturgie in Basilica furono accompagnate dai canti di una prestigiosa Cappella musicale, che ha avuto nel Settecento un successo travolgente, sotto la guida di geniali direttori e compositori, come padre Francesco Antonio Vallotti, e vantando, tra gli orchestrali, musicisti della tempra di Giuseppe Tartini, violinista e compositore tra i massimi della musica barocca. Per impedire che le loro opere e quelle di altri musicisti, eseguite dalla Cappella, fossero disperse, nel Seicento fu costituito un apposito «fondo» in cui conservarle. Nel tempo, il fondo musicale si è arricchito fino a diventare una miniera d’oro a tal punto che, di tanto in tanto, gli studiosi vi scoprono sorprendenti inediti (quelli del Tartini sono i più noti), puntualmente eseguiti dalle migliori compagini orchestrali.          

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017