Imprenditori di se stessi

Quattro milioni di piccole imprese e otto milioni di partite Iva, simbolo della vivacità e dell’intraprendenza italiana, sono una maggioranza silenziosa e poco rappresentata.
25 Giugno 2010 | di

È un’Italia da record, di cui andare orgogliosi. Stiamo parlando dell’imprenditoria nostrana che, stando alle cifre, è a livello mondiale la più diffusa sul territorio in rapporto alla popolazione. Il nostro Pae­se dispone infatti di un parco imprese pari a 4 milioni 400 mila unità, secondo quanto riporta l’ultima rileva­zione dell’Istat. Ben il 94 per cento di questo patrimonio di aziende ha meno di dieci addetti, e rientra di conseguenza nella categoria definita «microimpresa»; se però allarghiamo il raggio anche alle piccole (meno di 50 lavoratori) e medie (meno di 250) imprese, in sigla le Pmi, arriviamo al fatidico 99.9 per cento. Un panorama del genere deve tenere conto anche di un altro dato record: gli 8.8 milioni di partite Iva che nel 2009 risultavano essere aperte in Italia.

Ma chi sono tutti questi lavoratori autonomi? A mettere in fila le cifre, il popolo dei «piccoli» sembra essere una potenza, dalla voce forte, un gruppo di quelli che contano, anche nell’immaginario collettivo. Invece non è così, anzi. Se c’è un aggettivo da accostare ai microimprenditori, è «invisibili»: sono storicamente poco studiati dagli esperti, poco presi in considerazione dai politici, poco presenti sulla scena pubblica, nonostante a tutti gli effetti siano uno degli assi portanti dell’economia nazionale.


Se gli elementi di dispersione non mancano, di recente, complice la crisi, molti piccoli stanno cercando piattaforme comuni di rivendicazione, scoprendo che il vecchio adagio secondo il quale l’unione fa la forza potrebbe essere in fondo vero. Con questo spirito, nel maggio scorso ha esordito la fondazione Rete imprese Italia, nuovo soggetto unitario del mondo delle Pmi promosso da Confartigianato, Cna, Casartigiani, Confcommercio e Confesercenti. Un’alleanza del genere tra organizzazioni di commercio, artigianato e servizi è l’evoluzione più strutturata del «patto di Capranica» del 2006, nato per contrastare alcuni provvedimenti del governo Prodi. Rete imprese Italia mira a sedersi al tavolo della concertazione nazionale, scardinando il sistema triangolare governo-sindacati-Confindustria. I cinque presidenti firmatari dell’accordo – che ogni sei mesi si turneranno alla guida della fondazione – hanno già individuato una serie di rivendicazioni comuni, senza peraltro rinunciare a far ascoltare le proprie ragioni particolari nel corso delle già oliate assemblee annuali confederali. Rete imprese Italia potrà diventare finalmente «una rappresentanza più moderna che dia la possibilità di filtrare le domande provenienti dal basso», come auspica Di Vico.


L’orizzonte politico

Nel frattempo proprio la politica, a livello nazionale, sta offrendo segnali di cambiamento di rotta quanto ad attenzioni verso i piccoli. Storicamente il piccolo-medio imprenditore vota azzurro, Popolo delle Libertà, o verde, Lega. È in particolare quest’ultima a presentarsi come alfiere dei piccoli nelle stanze dei bottoni, un ruolo che gli scossoni della crisi e lo scontento verso la politica non hanno per ora incrinato. Commenta Nicola Rossi, senatore Pd e professore di economia all’università Tor Vergata di Roma: «Chi si stupisce dovrebbe sentir parlare in parlamento i leghisti. Sui problemi della piccola impresa sono preparatissimi. Pdl e Pd, invece, in questo si assomigliano, parlano per sentito dire».

Territorialità politica significa anche protagonismo degli Enti locali, perché il piccolo imprenditore cerca udienza non a Roma, ma in Comune, Provincia e Regione. E tuttavia, gli indizi più promettenti per le Pmi vengono, in questo scorcio di 2010, dal governo centrale. Prima spia della novità è la discussione sull’articolo 41 (e il conseguente articolo 118) della Costituzione, terzo comma, che vincola la libertà d’impresa a essere «indirizzata e coordinata a fini sociali». Sono stati il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti a sollevare la questione, applauditi dall’Antitrust e dalla dirigenza di Confartigianato, che si sono dette d’accordo: come non approvare chi dice di voler togliere lacci e lacciuoli? C’è però un problema, sottolineato da molti editorialisti (tra gli altri, di «Sole 24 Ore» e «La Stampa», non propriamente giornali anti liberali): non è con la Costituzione che bisogna prendersela. Anche su «Avvenire» Sergio Soave rileva che «discutere oggi dell’aggiornamento dell’articolo 41 non può e non deve essere un tabù, ma attribuire a esso l’impossibilità della modernizzazione e della liberalizzazione del mercato è un po’ semplicistico» e che in definitiva «è con la Costituzione vigente che sono potute nascere le centinaia di migliaia di imprese alle quali il Pae­se deve tanta parte della sua prosperità». E se Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera» rivendica la legittimità di intervenire sul testo costituzionale, perché «ciò che vi è scritto o non vi è scritto non è privo di effetti per le sorti della comunità», Irene Tinagli di «Italia futura», in un editoriale titolato Costituzione usata come scusa, su «La Stampa», preferisce puntare il dito sulla competitività, le cui premesse sono «un sistema della ricerca e dell’istruzione moderno e competitivo, una Pubblica amministrazione funzionale e trasparente, e un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo, che supporti il lavoro e gli investimenti».

In ogni caso, approvando o meno la modifica dell’articolo 41, tutti sembrano essere d’accordo con la nuova parola d’ordine dell’estate: «semplificazione». Non è una novità dell’ultima ora: il governo – ed è la prima volta nella storia repubblicana – si è dotato addirittura di un ministero con questo nome (titolare, Roberto Calderoli). Un’attività riconosciuta da tutti come necessaria, perché troppe sono le sovrapposizioni tra provvedimenti di diverso genere sulla stessa materia, ed eccessiva la burocrazia. Basti pensare che un’azienda impegna in media 334 ore di tempo l’anno per rapportarsi con l’erario, con una spesa pari a 16,2 miliardi. Per un’impresa fino a nove dipendenti, ciò si traduce in un costo a persona di 1.587 euro, secondo i calcoli della Cgia di Mestre. Tante carte e tanto tempo anche per avviare una nuova attività, una prassi che il governo conta di mandare in soffitta col pacchetto «Libertà d’impresa». Cuore del provvedimento è la segnalazione – e non più la dichiarazione – di inizio attività, mentre l’autocertificazione diventerà lo strumento prevalente per rispettare le diverse procedure, secondo il principio delineato da Tremonti di consentire tutto «tranne ciò che è vietato». I controlli, poi, saranno solo ex post. Nello stesso contesto si inserisce il rilancio dello Sportello unico per le attività produttive, che potrebbe diventare operativo a inizio 2011: si tratta di una più semplice interfaccia tra Pubblica amministrazione e impresa, che sarà presente in ogni Comune. Terzo passaggio sarà l’approvazione dello Statuto delle imprese, la proposta di legge sottoscritta da 130 parlamentari di entrambi gli schieramenti, che ha già riscosso l’approvazione delle associazioni di rappresentanza e delle Camere di commercio. Primo firmatario è Raffael­lo Vignali, deputato Pdl ed ex presidente della Compagnia delle opere, l’associazione di imprese che fanno riferimento a Comunione e Liberazione. Lo Statuto è una raccolta dei diritti delle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione e del fisco: disciplina i tempi della burocrazia, semplificandola; garantisce la puntualità dei pagamenti della Pubblica amministrazione; fissa un tetto massimo alla pressione fiscale. Non a caso questi punti sono tra i principali ostacoli per le Pmi. Prendiamo i pagamenti: i ritardi della Pubblica amministrazione arrivano anche a 900 giorni e producono una domanda di credito di 67 miliardi di euro. Esistono addirittura casi di fallimento di aziende per insolvenze del settore pubblico.

Altra buona novità di fine giugno è la proroga a fine gennaio 2011 della moratoria sui debiti delle Pmi, firmata tra le rappresentanze delle imprese e l’Abi. Mentre Giorgio Guerrini, presidente Confartigianato, constata con soddisfazione che «è stato dato ossigeno alle imprese», Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio e guida di turno di Rete imprese Italia, ha invitato gli istituti di credito a proseguire su questa strada: «Alle banche continuiamo a chiedere fiducia e lungimiranza», anche perché la situazione dei commercianti non è florida, specie in città. Commenta ancora Sangalli: «Nessuno potrà farci credere che il processo di desertificazione commerciale dei centri storici e delle periferie sia un segno di modernizzazione e progresso. Quando si spegne un’insegna è un pezzo di città che muore».


Partite Iva. luci e ombre


Nel calderone ci sono lavoratori di tante categorie, dalla parrucchiera all’avvocato, dal dogsitter al consulente d’immagine. Dice di loro Dario Di Vico: «Non hanno veri e propri portavoce. La loro unica controparte è lo Stato o, meglio, il fisco». E passi – si fa per dire – per Iva, Irpef e Irap: ci sono anche i contributi previdenziali alla gestione separata dell’Inps, il 26 per cento degli introiti che alla fine, facendo i conti, significheranno pensioni insufficienti, spesso inferiori a quelle sociali. Chi ha scelto questa strada cerca, seppur con difficoltà, di stare al passo. Ma se la partita Iva è stata imposta? Prendiamo Erika, ad esempio. Un nome di fantasia per un lavoro che di fantasioso ha ben poco: è receptionist-segretaria in una palestra di un centro città. Orari ovviamente fissi, committente unico, niente autosufficienza. Senza però i vantaggi del lavoro dipendente. Il caso di Erika è emblematico di una situazione diffusa: partite Iva individuali, ma prive di caratteristiche d’impresa che, sotto l’ombrello dell’imprenditorialità (nel quale si dovrebbe contemplare solo il rischio d’impresa) celano situazioni di precarietà. I sindacati, preso atto della situazione, se ne stanno interessando (ad esempio la Cgil con la sezione Nidil), ma il solco creatosi con i giovani, e con questi giovani in particolare, è ampio. Lo testimonia, ad esempio, Marco: laurea in economia in tasca e otto anni tra contratti di collaborazione e a progetto fino all’apertura della partita Iva, sempre nella stessa azienda. «Il sindacato – dice –rappresenta i dipendenti, quelli già tutelati, quelli col contratto a tempo indeterminato». Questa realtà è stata ben raccontata in chiave ironica nel libro delle edizioni Einaudi Mi spezzo ma non m’impiego, nel quale Andrea Bajani spiega: «Non c’è nessuno che nella vita non abbia sognato almeno una volta di diventare un imprenditore. A moltissimi, con lungimirante generosità, le aziende lo impongono addirittura». Perché è questo che accade: io impresa – anche pubblica – sono disposta a darti lavoro, ma solo in regime di partita Iva. Un discorso fatto al neolaureato, ma di questi tempi anche al cinquantenne neodisoccupato. Sul blog di Dario Di Vico Generazionepropro, un ingegnere civile scrive: «Noi super precari della partita Iva non solo non abbiamo i contratti, seppur temporanei, dei precari normali, ma non abbiamo alcuno dei diritti previsti per il lavoro subordinato. Niente ferie, malattia, tredicesima, liquidazione, nessun potere contrattuale, e in più dobbiamo pagare costi fissi come commercialista e previdenza, anche se lavoriamo (e guadagniamo) niente o quasi». Tuttavia «è un errore – sostiene Di Vico – pensare che questo settore si sia improvvisamente trasformato in una sorta di regno del caos. La verità è più semplice: alcune distorsioni che rischiano di compromettere l’intera impalcatura del lavoro indipendente si possono e si devono correggere». E dell’intera impalcatura, integra, della microimprenditoria, l’Italia non può proprio fare a meno.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017