La speranza era un pettirosso curioso

06 Febbraio 2000 | di

Duecentotrentasette i giorni di prigionia. Gli orecchi mutilati. La morte sempre in agguato. Un dramma vissuto con il coraggio della fede in Dio che gli si manifestava in tanti modi: una nidiata di topolini, il suono delle campane, un pettirosso... Imminente il processo ai sequestratori.

Giuseppe Soffiantini è l industriale bresciano, malato di cuore, rimasto per 237 giorni alla mercé di una delle più feroci bande di sequestratori: nel corso della lunga prigionia, infatti, gli taglieranno un lembo di entrambi gli orecchi (uno lo invieranno al direttore del Tg5, Enrico Mentana) per sottolineare la propria spietata determinazione e incutere terrore. Uccideranno in un agguato l agente dei Nocs, Samuele Donatoni. Una vicenda drammatica, e anche torbida per l intromissione di personaggi che hanno speculato sulla tragedia. Ma vissuta dalla vittima e dai familiari con grande dignità , coraggio e fede, pur con l angoscia nel cuore, con l incubo costante che tutto, in ogni momento, si sarebbe potuto concludere nel peggiore dei modi. Il lungo sequestro, raccontato di recente in un libro (Il mio sequestro, Baldini e Castoldi), torna in questi giorni alla ribalta della cronaca, con l avvio imminente del processo ai sequestratori.

 A due anni dal «ritorno alla vita» abbiamo chiesto a Giuseppe Soffiantini di rivisitare quella terribile esperienza, di rievocare i sentimenti e i pensieri che l hanno accompagnata, indicando i punti di forza ai quali si è aggrappato per non venire travolto dallo sconforto e dalla disperazione.
Ha accettato. Ora siamo nel suo ufficio di presidente del Gruppo Manerbiesi. Pur avendo l agenda zeppa di impegni professionali, stacca i telefoni, disposto ad ascoltarci e a raccontare: gli occhi comunicano grinta, entusiasmo; i modi sono spontanei e diretti.
«Anche se mi costa esordisce parlo volentieri della mia esperienza. Un amico carissimo, monsignor Gennaro Franceschetti, arcivescovo di Fermo e mio parroco al tempo del sequestro, mi ha invitato a testimoniare la mia fede per sdebitarmi col Padreterno per l esito felice della vicenda. 'La gente ascolta meglio uno di voi, che noi uomini di chiesa', mi ha detto. E poi ho un conto aperto anche con sant Antonio...».
L otto settembre scorso, a Loreto, Soffiantini ha partecipato con altri ex sequestrati ad un incontro di preghiera e di perdono, durante il quale una catena spezzata è stata posta davanti alla Vergine Lauretana.

Quali sentimenti si intrecciano nel cuore di un sequestrato e della sua famiglia, nella spossante attesa di un segnale, di un contatto, nello stentato e altalenante procedere delle trattative, mentre aleggia l angoscia che ogni giorno possa essere quello fatale? Per Giuseppe Soffiantini e famiglia (la moglie Adele e i tre figli) non sono sentimenti di rabbia o di odio. Mai. E anche il dopo rapimento, con il suo inevitabile seguito di polemiche, è stato un occasione per cementare l unità  della famiglia e rinsaldare il reciproco affetto.
«La mia famiglia è sempre stata molto unita, ma la gioia del mio ritorno alla vita, doveva essere perfezionata con il perdono di chi ci aveva fatto tanto male. Io ero già  allenato a questo, per una questione di sopravvivenza. Per i miei familiari, che avevano tanto patito per colpa di sconosciuti, era più difficile. Abbiamo fatto allora una «terapia di gruppo», o meglio, un percorso spirituale, per giungere insieme al perdono. Sono stato rimproverato per aver pubblicamente perdonato i miei rapitori, e accusato per questo di buonismo a tutti i costi. Il buonismo è un atteggiamento sciocco. Il perdono è un dovere per un credente, ma anche una necessità  per continuare a vivere. Come si può andare avanti con l astio nel cuore, con il desiderio di rivalsa e di vendetta? Il solo modo per ringraziare il Signore di avermi fatto uscire da una esperienza così terribile, è il perdonare. Solo allora si recupera in pieno la qualità  della vita e dei rapporti. Il perdono è parente dell amore. Dio è morto per noi, compiendo un grande gesto di amore. L amore è l unico sentimento che dà  un senso alla vita».
Come si fa ad avere fede e pregare Dio quando ci si ritrova con gli orecchi mozzati, senza possibilità  di lavarsi, avendo come cibo una fetta di lardo e una mela, i vestiti fradici in pieno inverno, e dormendo entro buche o sotto tende anguste e incatenati?
«Quando pregavo dicevo: 'Signore, tu mi hai creato, perciò ho diritto ad essere ascoltato. So che tantissime persone che conosco, e altre che non conosco, pregano per me. Se non vuoi ascoltare me, ascolta loro. Tra essi ci saranno dei bambini, ci sono i miei nipotini:
a loro, Signore, non puoi dire di no'. Da queste preghiere traevo una forza incredibile. Un giorno mi hanno comunicato il calendario delle mutilazioni: il 20 settembre un orecchio, il 20 ottobre l altro, il 20 novembre le dita, il 20 dicembre, se le cose non si fossero risolte, l uccisione. Sono caduto in uno stato di profonda prostrazione. Sa che cosa accadde in quel momento? Uno scampanio festoso e distinto mi ha scosso dal torpore. Eppure in quattro mesi di prigionia le campane non le avevo mai sentite suonare: sarà  stato il vento, che soffiava nella direzione del rifugio, a farmi giungere quel suono e in modo così chiaro, ma per me è stata una inequivocabile risposta alle mie preghiere. Il mio carceriere si è accorto subito del mutato stato d animo: era sorpreso e impaurito. 'Ho il Signore dalla mia parte gli dissi , non sono un animale come te. Per me questo è il segno che Egli mi sta guardando e ascoltando».

Nella Bibbia si legge che Dio si è manifestato al profeta Elia non nell impeto del vento o nel frastuono del terremoto... ma in una lieve brezza. Dio parla così anche a noi, oggi?
«Certo, quotidianamente. Però bisogna invocarlo. Durante la prigionia un pettirosso si infilava nella tenda, tanto vicino che allungando la mano lo potevo prendere. Becchettava le briciole di pane, se ne andava per poi ritornare. Quanta compagnia mi ha fatto! Quando la situazione s era fatta davvero pesante e delicata, una topolina gravida si affacciava all ingresso della tenda, mi guardava muovendo la testolina con un moto quasi impertinente.
Passato del tempo, è ricomparsa con la famigliola: lei, più audace, a fare da apripista, in mezzo i piccoli e in coda il maschio. Infondeva speranza vedere la vita che continuava& Ma ricordo anche la gioia procuratami da una pianticella di frassino, spuntata appena arrivato e che nei giorni successivi ha messo le prime due tenere foglie... La presenza di Dio per me era in questi piccoli segni della natura. Non sono forse tutte manifestazioni che io non ero solo?».

In tanti giorni di vicinanza fisica, carceriere e vittima finiscono inevitabilmente con il raccontarsi sogni e speranze. Il carceriere, Marco in codice, (probabilmente Giovanni Farina), usa verso il sequestrato attenzioni e delicatezze insperate.
«Sotto la scorza del feroce bandito c era l uomo. Fin dai primi momenti del sequestro io ho scavato in questa direzione per arrivare al cuore del carceriere. E ciò mi ha giovato quando l ipotesi della mia soppressione era diventata più concreta. Spesso dicevo loro che non sapevo se ne sarei uscito vivo, ma pregavo il Signore anche per loro. 'Prego per te, Marco, perché prima di morire tu possa capire il male che stai facendo a me e al tuo prossimo, e prego perché tu possa porvi rimedio'. E poiché mi consideravo io stesso un peccatore, è stato più facile perdonare i miei carcerieri. Li perdonavo quando, dopo lo sconforto, davo fiducia a loro, ai loro gesti, offrendo loro nuove opportunità  di salvarmi. Il perdono cos è se non la possibilità  sempre nuova di ricominciare, liberati dal senso di colpa, dagli errori passati?».
Ora inizia il processo, si saprà  qualche verità  in più. È possibile giudicare con misericordia e insieme con giustizia?
«La misericordia è un livello di amore talmente alto che può concederla solo Dio. Noi uomini dobbiamo accontentarci di un livello più basso, dobbiamo vivere l amore per poter poi essere in grado di perdonare. L amore per gli altri ci ritorna moltiplicato. Sono passati due anni dalla liberazione, e lei non sa quante testimonianze di solidarietà  e di affetto ancora ricevo. Vede questo mucchio di lettere? Sono arrivate ieri e oggi. Ormai ne ho ricevute più di quattromila» .
Che cosa pensava quando recitava l Ave Maria, o si rivolgeva a sant Antonio?
«Mi accorgevo come siamo piccoli, egoisti e inadeguati. Nella prima parte della preghiera, quando ci si rivolge al Signore, di solito non si è abbastanza concentrati. Si diventa molto più attenti nella seconda parte, quando si chiede il perdono, si chiede la grazia, l aiuto.
In mezzo ai boschi, con la canna del mitra puntata a ricordarmi che la mia vita era appesa ad un filo, ho imparato a recitare bene le preghiere fin dall inizio. Ho invocato spesso anche sant Antonio. Dalle mie parti siamo molto devoti al Santo e io ero stato più volte alla basilica di Padova. Le dirò di più: a Natale, dopo sei mesi di sequestro, la speranza vacillava. E tanta gente mi ha scritto di aver pregato proprio allora sant Antonio, perché lui non delude mai. Non si sono sbagliati!».
Poi, inattesa, la liberazione...
«Poco prima che mi liberassero, ero convinto invece che fosse arrivata la fine. Stranamente, in quelle ore, il mio cuore batteva regolarmente, con una calma inspiegabile. Ho sempre pensato che i condannati a morte dinanzi al patibolo cedano alla disperazione. Invece andavo incontro alla fine con incredibile tranquillità & Sono stato operato al cuore sei anni fa, e temevo che la protesi alla valvola mitrale avrebbe ceduto. Invece niente. Quando poi mi sono accorto che veramente mi liberavano, allora ho temuto di morire di gioia».

 

   
   

   

LE DATE DEL CALVARIO      

Soffiantini viene rapito il 17 giugno 1997 nella sua casa di Manerbio, Brescia, da quattro banditi guidati da Mario       Moro. L' obiettivo dei sequestratori è il figlio Paolo, in quel momento rientrato nella caserma, dove faceva il servizio di leva. Viene tenuto nascosto in covi diversi: a La Spezia prima, poi a Montalcino (Siena) e a Calvana (Prato).   

Il 17 ottobre 1997 ad Avezzano, statale Tiburtina, i Nocs tendono un agguato ai sequestratori che reagiscono uccidendo l' agente Samuele Donatoni. Nello scontro viene ferito anche Mario Moro, che morirà  in ospedale.

Il 27 ottobre 1997, Soffiantini, liberatosi dalla catena, tenta la fuga, ma è ripreso. Il 15 del mese successivo, gli viene mutilato l' orecchio sinistro e l' 8 gennaio 1998 quello destro, inviato per lettera al Tg5.     

Il 2 febbraio 1998 viene pagato il riscatto (5 miliardi) e il 9 avviene la liberazione, accompagnata da un sinistro consiglio: «Attento, qualcuno di insospettabile vuole ucciderti».

IL PETTIROSSO È TORNATO      

«L ui (il pettirosso) e i quattro topi sono i miei piccoli straordinari compagni in un bosco irraggiungibile. Se ne va prima del buio. Una sera si attarda, una civetta lo aggredisce. Gli piomba addosso come un caccia. Sento, più che vedere, uno sbattere d' ali incrociato. Di sicuro l' ha fatto fuori. Cerco di consolarmi con i miei amici topi. La madre è incinta e mi incoraggia un poco quel rinascere della vita nel mondo degli animali. Ritornerò anch' io dalla morte? Il mattino seguente, il pettirosso è in forte ritardo. È morto sicuramente. Sono più solo, orfano già  dei pensieri che accompagnavano il suo volo, il suo modo di saltellarmi intorno. Mi prende una tristezza profonda. Invece, improvvisamente, quando ormai sembrerebbe impossibile, atterra proprio davanti all' entrata della tenda. Mi commuovo. Se lui è tornato dalle grinfie della civetta, io ritornerò dalle grinfie dei carcerieri. C' è una solidarietà  muta fra animali piccoli e grandi nel bosco estremo della Calvana. Mai provato un freddo simile, la mia idea di freddo d' ora in poi       sarà  quella della Calvana, dovessi vivere gli ultimi giorni al Polo Nord, per me 'il freddo' rimarrebbe quello del monte sopra Prato».     

(Da Il mio sequestro, pag. 180)

 

   
   

   

Giuseppe Soffiantini, Il mio sequestro. La storia mai raccontata di 237 giorni di prigionia, Baldini e Castoldi, pagine 230, lire 22.000.      

Più che un libro di memorie, questo diario è un pugno nello stomaco, scritto «affinché le vittime non siano confuse con i carnefici». Il libro è redatto da Tonino Zana, del «Giornale di Brescia», amico di Soffiantini, che ha potuto attingere a fonti sicure per narrare una vicenda umana e spirituale di così grande valore.
FINALMENTE LIBERO      

«Il maleficio è momentaneamente distrutto, stracciato dal sorriso di questa signora

(la prima persona incontrata dopo la liberazione, n.d.r.). La cura consisterà  nel ripetere le dosi, per quel che basta: occhi e parole amichevoli ogni giorno. E tutto diverrà  normale».             

(Soffiantini)

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017