La Venere di Milo(sevic)
Questa mattina, facendo due passi nella zona di Brera, a Milano, ho notato un manifesto dipinto a mano, forse da qualche studente pacifista del liceo artistico. Sotto una scritta in rosso «La Venere di Milo(sevic)», si poteva vedere l'interno di una sala di museo al centro della quale troneggiava uno scheletro nella posa ben nota della Venere di Milo. Attorno al piedistallo, si notava un gruppo di turisti dal volto estasiato che scattavano entusiasti foto dell'opera d'arte. Particolare curioso: i turisti erano tutti generali con mostrine delle nazioni della Nato e dell'Est europeo. Sul fondo del manifesto, l'ignoto autore aveva aggiunto: «Quando la guerra diventerà roba da museo?».
Mentre scrivo, la guerra infuria alle porte di casa. Lutti, rovine, stupri, umiliazioni: secoli e millenni trascorrono ma la fiammella dell'odio e della vendetta è sempre lì, sotto la cenere, pronta a trasformarsi in rogo da un momento all'altro. Come molti di voi, vivo con angoscia questa ennesima prova di forza. Come molti di voi, non riesco proprio a capacitarmi di come sia facile, per l'essere umano, dimenticare le durissime e irreversibili conseguenze della guerra, di qualsiasi guerra, da quelle tra popoli a quelle familiari. Noi ci difendiamo in ogni modo da ciò che avvertiamo come nocivo per la nostra sopravvivenza e tendiamo a rimuovere dalla nostra coscienza esperienze, anche recenti, che hanno segnato le generazioni che ci hanno preceduto. Questo oblio ci impedisce di utilizzare i periodi di pace per prevenire altre guerre. Quando i conflitti armati sono lontani dalla nostra terra, ci illudiamo che non ci riguardino e, anzi, ci balocchiamo con le battaglie e le violenze dei film, della televisione, dei videogiochi.
A questo fenomeno di amnesia collettiva contribuisce di certo il vuoto di comunicazione diretta, faccia a faccia, tra le generazioni. Come può, chi nasce e cresce in tempo di pace, capire l'orrore della guerra se i più anziani non raccontano ogni tanto, di persona, le loro esperienze, non accontentandosi di delegare la narrazione al cinema e alla televisione? I nostri ragazzi crescono con una dieta televisiva che somministra loro, ogni giorno, centinaia di scene di violenza, di guerra, di criminalità , ma non per questo sono sensibilizzati contro la guerra. La sovrabbondanza di esposizione allo spettacolo della violenza non è confrontabile con l'immediatezza della narrazione orale dei testimoni di quelle violenze e, anzi, produce una sorta di anestesia affettiva che impedisce loro di dare una giusta dimensione a ciò che vedono in un telegiornale o in un telefilm o in un videogioco.
Intendiamoci: non mi auguro di certo che i nostri figli siano scaraventati in un campo di battaglia per fare esperienze reali. I loro nonni e i loro antenati sono stati coinvolti in innumerevoli, sanguinose, battaglie e da quelle esperienze non è scaturita la pace. No, io vorrei soltanto - come avviene per alcuni di loro impegnati nel volontariato - che i nostri figli conoscessero la vita com'è realmente impegnandosi in attività di aiuto a chi soffre nelle loro città , nella protezione civile, nelle iniziative umanitarie a favore delle vittime di guerra. I loro genitori diano l'esempio e i più anziani non perdano quest'occasione per trasmettere ai bambini e ai ragazzi, con le loro parole, quello che hanno imparato sulla guerra.
È guerra quando non lascio parlare l'altro, quando, come si dice, «non voglio sentir ragioni». È guerra quando cerco di annientare l'avversario e di cancellarlo, in ogni senso. È guerra quando rappresento i contendenti come tragiche macchiette: i Buoni contro i Cattivi, i Pazzi contro i Saggi, i Giusti contro gli Ingiusti, e così via. Dicano gli anziani ai ragazzi che la guerra ci inganna anche in questo: ci fa credere che si svolga tra maschere della Commedia dell'arte, ognu-na con un suo carattere fisso, immutabile. La guerra la vuole chi ha scritto il copione, chi dalla tragedia ricava danaro e potere. La gente comune non ha interesse alla guerra e alla violenza perché sempre, da che mondo è mondo, sono i più deboli e i più indifesi che subiscono i danni maggiori, che muoiono e che soffrono. Ma chi ascolta le loro ragioni nel fragore delle bombe? Ci vuole calma e silenzio per ascoltare la voce dell'altro. Dicano gli anziani ai più giovani che anche questa volta verrà la pace e qualcuno dirà di aver vinto. Ma aggiungano anche che si può parlare di vittoria solo se si è riusciti a comprendere e ad accogliere le ragioni dei vinti. Se i cosiddetti vincitori non faranno così, si aspettino prima o poi un'altra guerra perché, come è stato detto, non c'è pace senza giustizia.
Chi è vissuto più a lungo dovrebbe aver imparato che quello che oggi è il nostro «nemico» può avere ragioni che non sono solo «sue» ma di interesse generale, perché riguardano l'equilibrio del nostro mondo, e che il nemico «vinto» di oggi potrà diventare l'amico di domani, se non sarà umiliato.
Aiutino i più anziani a far capire che distruggere è immensamente più facile che costruire e che l'uomo dà il meglio di se stesso quando si impegna in imprese straordinarie, com'è quella di portare la pace dove domina la guerra, la mediazione dove prevale la prova di forza, l'amore per la vita dove c'è il culto della morte. Ogni giorno, in ogni luogo, anche nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle sedi delle istituzioni pubbliche. E ringraziate chi vi accuserà di essere dei Don Chisciotte: è un complimento che farete in modo di meritare impegnandovi anche se foste gli ultimi a parlare di pace in tempo di guerra.