Lebbra, guarire le piaghe e i pregiudizi

Sulla scia dell’esempio di san Francesco vogliamo, insieme a voi, «abbracciare» i lebbrosi, per aiutare loro ma anche per convertire il nostro cuore.
26 Maggio 2011 | di

La scena di padre Damiano che, nel 1884, mettendo i piedi in un catino di acqua troppo calda non avverte alcun senso di fastidio e scopre così di aver contratto la malattia della lebbra, è una delle più drammatiche che io abbia mai visto in un film. Il titolo della pellicola è Molokai, nome dell’isola maledetta delle Hawaii dove abitavano solo lebbrosi abbandonati a se stessi come relitti umani e nella quale il missionario fiammingo – Damiano De Veuster, appunto – svolse la sua missione fino alla morte. Correvano per me gli anni del seminario minore e ricordo quasi tutto di quella pellicola che raccontava in maniera epica una vicenda luminosa di santità, anche se alcuni episodi mi facevano trattenere il respiro e nascondere gli occhi dietro la mano: a dieci anni si può capire. Più tardi, nell’adolescenza, incontrai una figura dall’alta e indiscussa statura morale: Raoul Follereau, conosciuto da tutti come l’apostolo dei lebbrosi. La sua teoria era semplice e diretta. Rinunciando alla costruzione di pochi aerei da guerra, con il corrispettivo della mancata spesa si sarebbe potuta debellare la lebbra praticamente in tutto il mondo. Ecco una poesia di Follereau, del 1966, che ha infiammato milioni di cuori: «Meno carri armati e più aratri. Meno bombardieri e più ospedali. Meno bombe e più pane. Per tutti». Come non condividere!
 
Durante il noviziato l’incontro con la realtà della lebbra venne a partire dalle Fonti Francescane, là dove, nel suo Testamento, lo stesso Francesco racconta la propria conversione. «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo». Nell’esperienza dell’incontro con i lebbrosi c’è un capovolgimento esistenziale, una lotta interiore che fa diventare dolce quanto prima era amaro. Schemi di pensiero, valori e gerarchie vengono sovvertiti e riformulati sulla base di un incontro insieme drammatico e rigenerante. La conversione dunque, e quella di san Francesco ce lo dice apertamente, non è affare tra Dio e l’uomo, qualcosa che si gioca in verticale e basta, ma riqualifica la relazione con gli altri, radicalmente. Notiamo che per abbracciare il lebbroso, come ci dicono le Fonti, Francesco scende da cavallo, nel Medioevo simbolo distintivo di elevata condizione sociale e del ruolo di privilegio che ne conseguiva. Scendere al livello dell’altro è il primo movimento che anticipa una possibile totalità di condivisione: il bacio all’uomo sfigurato dal male. Non si tratta di beneficienza, ma di offrite tutto di sé, in particolare il pane nutriente della «relazione».
 
Quando il 17 giugno 2007 Benedetto XVI si recò in Assisi, passò a visitare il Santuario francescano del «Sacro Tugurio» a Rivotorto, nella piana di Assisi. Pochi giorni prima, il Papa aveva espresso il desiderio di poter sostare sul luogo nel quale Francesco curava i lebbrosi insieme ai primi compagni. E così fu condotto presso la chiesetta di S. Maria Maddalena, luogo poco distante dal Santuario dove, con tutta probabilità, nel ’200 venivano isolati e accuditi alla meno peggio i malati di lebbra. Ma veniamo ai nostri giorni, nei quali la lebbra – anche se non fa più vittime – deturpa migliaia di corpi e produce emarginazione, sofferenze che passano di generazio­ne in generazione. Questo accade, ad esempio, in Vietnam, a Thai Binh, dove la Caritas Antoniana interverrà con un progetto a favore di famiglie e bambini. Sulla scia dell’esempio di san Francesco vogliamo, insieme a voi, «abbracciare» i lebbrosi, per aiutare loro a guarire e soprattutto per convertire il nostro cuore.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017