Lettere al direttore

26 Maggio 2011 | di

Schiacciata dal mio tradimento
«Anni fa ho commesso un grave errore che non riesco a perdonarmi: ho tradito mio marito. Per paura di distruggere la mia famiglia, non gliel’ho mai detto. Per la vergogna non riuscivo neppure a confessarmi, poi l’ho fatto e ho trovato la forza di andare avanti. Ora cerco di essere una brava moglie e madre, mi rifugio nel Signore… Io amo mio marito e i miei figli con tutto il cuore, ma ho sempre un’ombra che mi segue. Le chiedo: sarebbe più giusto raccontare tutto a mio marito, mettendo a rischio la famiglia, oppure tacere, accettando il perdono del Signore nel segreto e andando avanti senza far soffrire nessuno, tranne me? So che mio marito, che mi ama da morire, non mi perdonerebbe mai. Lui, però, ama una donna che in realtà odierebbe».
Lettera firmata
 
Nessuno può decidere per lei. Se sceglie la totale sincerità deve accettare anche il rischio delle conseguenze. Ma le faccio una domanda: riuscirebbe poi a perdonarsi la distruzione della sua famiglia e il dolore dei figli? D’altra parte, posso comprendere la difficoltà a mantenere il silenzio per una colpa che sente schiacciante. Lei mi chiede in sostanza se sia più colpevole il tacere o il dire la verità fino in fondo. Nelle relazioni umane, così mi pare, non esistono assoluti. Molto dipende dalle circostanze, e dal carattere delle persone coinvolte, e nello spazio di una lettera il «tradimento» non è argomento che si possa esaurire. Non sarebbe giusto. Per cui il mio consiglio pratico è di parlarne con una persona di fiducia o anche, se necessario, con un prete o uno psicologo di un consultorio familiare cattolico.
L’unica cosa che però voglio dirle, qualsiasi scelta farà, è che nessuno può perdonarla se prima non sarà lei stessa a perdonarsi, se, cioè, non accetterà il limite della sua fragilità. Non è giusto autoassolversi con leggerezza, ma nemmeno autocondannarsi per sempre. Il fatto che anche la confessione non le dia il sollievo sperato, dipende forse dal fatto che, magari inconsciamente, ritiene che neppure Dio possa perdonarla? È come se la sua idea infranta di moglie e madre pesasse in modo così schiacciante da mettere fuori gioco anche la misericordia del Padre infinitamente buono. Non le sembra un po’ troppo? Anche umanamente, non è giusto ricondurre tutta la propria vita a un solo errore, per quanto grave. Perdonarsi e perdonare non significa dimenticare, né smettere totalmente di soffrire per la propria inadeguatezza; significa rialzarsi anche dal baratro, con le ossa rotte magari, ma forse più consapevoli dell’importanza di persone e valori cari fino a essere insostituibili. Dalle sue poche righe traggo l’impressione che lei, cara signora, sia una persona complessa e fragile, ma con tanta voglia di amare e di rimettersi in gioco, facendo perno sulla famiglia. Auguri!
 
Quando la vecchiaia avanza
«Caro padre, ho due genitori e una zia che hanno rispettivamente 92, 87 e 89 anni. Vedo la loro energia vitale diminuire; osservo la loro decadenza fisica e psichica avanzare velocemente, con il concomitante allentamento dei freni inibitori e la regressione a livello di bimbo furbo ed egoista. Non so perché, ma mi ero fatta l’idea che la vecchiaia fosse sinonimo di saggezza e serenità, che fosse l’età della vita in cui si vedono più chiare le cose, in cui tutto scorre lentamente e pacatamente, come se si trattasse di una vasca di decantazione che manda a fondo le scorie della vita e che lascia emergere la parte migliore. Pensavo, ingenuamente, che fosse possibile in questa età recuperare ciò che non si era potuto fare da giovani: dedicare più tempo agli altri, pregare di più, insomma avvicinarsi maggiormente a quella perfezione sempre persa di vista a motivo delle troppe cose da fare. Mi rendo conto invece che oggi (ho 61 anni), alle soglie di quella che credevo un’età d’oro, ho meno pazienza di prima, meno spirito di sacrificio, insomma sono meno virtuosa. Per questo le chiedo: che senso ha la vecchiaia?».
Lettera firmata
 
La sua lettera mi ha fatto venire in mente una battuta di fratel Enzo Bianchi durante un dialogo pubblico che ho avuto recentemente con lui al Salone internazionale del Libro di Torino. Il priore di Bose, rivolto ai presenti, tra i quali molti giovani, ha affermato scandendo le parole: «Lo sapete? Crescono gli anni e con gli anni crescono i peccati… Non illudetevi di diventar più buoni invecchiando; è sempre peggio!». Sono d’accordo con lui, nel senso che con gli anni in genere aumentano anche i nostri limiti e difetti, e il fardello del peccato può diventare più pesante.
C’è però un fatto nuovo, che si è imposto negli ultimi decenni. La vecchiaia oggi è sempre più lunga e porta con sé inevitabilmente un maggior decadimento psicologico e fisico un tempo riservato solo a casi isolati. Si tratta di un problema rilevante, poco affrontato dalla nostra società dell’efficienza, che sta cambiando nella percezione di molti la visione della vecchiaia, facendola apparire solo come periodo negativo e d’involuzione. E invece la vecchiaia è un tempo importante, che, come ogni periodo dell’esistenza, può essere ricco di senso, a patto d’impegnarsi nel prendere consapevolezza dei limiti ma anche delle opportunità: la saggezza della cosiddetta «terza età» non è affatto una chimera di cui sorridere; la maggiore capacità di cogliere gli aspetti positivi del vivere nemmeno; e anche quel certo distacco da cose che nei periodi dell’esistenza cosiddetti «produttivi» parevano irrinunciabili.

L’elenco potrebbe essere lungo. Ma ciò che mi preme sottolineare in queste righe è che la vecchiaia va rivalutata come un bene prezioso soprattutto a livello sociale: se anche non si è più attivi nel lavoro, molto ancora si può dare alla società nel suo insieme (basti pensare all’importanza, anche economica, dei nonni in moltissime famiglie: sono loro il vero welfare!), proprio come testimonianza di valori che altrimenti verrebbero smarriti. Certo, è necessaria una buona consapevolezza a livello individuale: la vecchiaia, oltre a portare «acciacchi», è tempo di bilanci, e se qualcosa nella vita non quadra e non ci si ritrova con un’esistenza comunque «piena» (che non significa senza limiti o lati oscuri) alle spalle, si rischia di cadere in grottesche rincorse della giovinezza perduta. Ecco allora che accettazione, pazienza, riconoscenza per quanto la vita ci ha offerto piuttosto che recriminazione su quello di cui ci ha privato, aiutano ad affrontare serenamente questo periodo di vita. Nella Bibbia l’età avanzata è segno della benevolenza divina e agli anziani è tributato grande rispetto. Vi si legge infatti: «Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora la persona del vecchio» (Lv 19,32). La via dunque è quella di imparare a gustare gli anni più maturi, preparandoci – e di questo spesso si fatica a parlare, anche tra credenti – all’incontro con Dio.
 
 
Il «Messaggero di sant’Antonio» ricevuto dal Papa
 
Nel corso dell’intensa visita che ha compiuto nel Nordest, il 7 e 8 maggio scorsi, il Santo Padre ha trovato un momento anche per noi frati e amici del «Messaggero di sant’Antonio». Nel pomeriggio di domenica 8 maggio, infatti, ho avuto il grande onore di essere ricevuto da Benedetto XVI, in forma privata, nel Palazzo patriarcale di Venezia.
Ho potuto così consegnargli un e-reader contenente la prima copia in formato digitale dell’Opera omnia di Albino Luciani-Giovanni Paolo I, edita dal «Messaggero». Ho inoltre affidato alla sua personale preghiera tutti i lettori della rivista e i devoti del Santo sparsi nei cinque continenti.

 p. Ugo Sartorio
 
 
Lettera del mese
 
Nuovo ateismo

«Caro padre, mi piace andare nelle librerie della mia città e curiosare tra i libri, soprattutto nel reparto che va sotto il nome “Religione”. Qui trovo tanti scritti frivoli, che hanno a che fare col mondo New Age e quindi con una spiritualità fai-da-te, ma da qualche tempo noto parecchi volumi apertamente contrari al cristianesimo, che cioè lo contestano direttamente con la volontà di demolirlo, con argomentazioni approssimative e, soprattutto, con l’arma dell’ironia. I nomi degli autori li conoscerà anche lei: Odifreddi, Giorello, Augias… Perché tutto questo livore?».
Daniela – Torino
 
Quando, con la fine delle grandi ideologie, la stagione dell’ateismo militante era ormai alle spalle, quasi reperto da mettere agli atti della storia, sulle soglie del XXI secolo abbiamo assistito, in Occidente, al rifiorire di un ateismo muscolare, tanto isterico quanto grossolano, nutrito di argomenti vecchi e riscaldati tenuti insieme da un miope fanatismo scientifico. Lei ha fatto alcuni nomi di autori italiani, ma i maggiori esponenti di questo filone sono di area anglosassone e nordamericana: Richard Dawkins L’illusione di Dio (2007, nella foto), Sam Harris La fine della fede (2004), Christopher Hitchens Dio non è grande (2007), Daniel Dennet Rompere l’incantesimo (2007). Il fenomeno è vistoso, soprattutto nelle librerie, dove in breve tempo i testi citati sono diventati veri e propri bestseller, anche se l’interrogativo su questa improvvisa fortuna editoriale va portato più in profondità. Che cosa sta succedendo? Probabilmente il riprendere fiato delle religioni dopo un letargo di decenni nei quali si poteva immaginare un loro progressivo declino fino alla scomparsa definitiva, ha infastidito più di qualcuno, soprattutto certi intellettuali che hanno amplificato le derive fondamentaliste della rivincita di Dio, come la chiama il sociologo francese Gilles Kepel. In verità, però, l’attacco è rivolto prevalentemente al cristianesimo (con un occhio di riguardo per il cattolicesimo), rimettendo in campo le pretese di un rigido scientismo ottocentesco rilette nella recente versione evoluzionistica, e si utilizzano parole grosse, sprezzanti, di una parzialità indisponente: la fede non avrebbe alcun valore cognitivo (sarebbe solo favola o fantasia malata), per cui equivarrebbe a oscurantismo, intolleranza, violenza e crudeltà, immaturità e antiumanesimo, irrazionalità ad alto tasso di tossicità sociale. Insomma, come sostiene il sociologo Philip Jenkins, l’anticattolicesimo è ai nostri giorni l’unico pregiudizio ammesso, un pregiudizio, tra l’altro, che può essere sostenuto impunemente.

Ma che cosa fa la differenza tra questo ateismo debole(soft-core) e ciarlatano e l’ateismo duro(hard-core) e pensoso del passato, quello classico di Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud, Sartre? Il fatto che il primo in gran parte ignora e si pone a lato del dibattito sia filosofico che teologico sviluppatosi nei secoli intorno alla questione di Dio, per cui soffre di patetiche e patenti semplificazioni, non riuscendo forse nemmeno a intuire le conseguenze culturali ed esistenziali disgreganti di posizioni disinvoltamente e unicamente polemiche, aggressive, demolitrici. È un anticattolicesimo da talk-show, che vuole azzerare l’avversario, togliendogli la credibilità e ancor più la parola. La qual cosa fa dire al cardinal Ravasi: «Dobbiamo riconoscere che ai nostri giorni sta estinguendosi la stirpe degli atei autentici, coerenti con se stessi, segnati dal dubbio, aperti alla domanda, pronti a vivere sotto un cielo spoglio di presenze trascendenti ma adottando una loro etica e una visione immanente della storia e del mondo». In una parola, si potrebbe dire che oggi trionfano la superficialità, il pressapochismo, lo sberleffo contro un cattolicesimo che si conosce poco e male. Il consiglio è semplice: leggete uno di questi libri, ed è come averli letti tutti.


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017