Lettere al direttore

29 Giugno 2011 | di

No al pietismo nelle campagne di solidarietà
«Sono da anni abbonata al “Messaggero”, che mi piace molto per i contenuti, l’aspetto grafico e per certe scelte coraggiose e controcorrente. Per questo mi permetto di scriverle per esprimerle una perplessità. Ricevendo la busta che propone il progetto della Caritas Antoniana nel lebbrosario di Van Mon, in Vietnam – intervento nobilissimo – sono rimasta male, quasi infastidita dall’uso di quell’immagine, peraltro bellissima, della bimba dai grandi occhi innocenti che vi campeggia. Mi siete apparsi sullo stesso piano di quanti usano le immagini dei bambini per vendere i prodotti più disparati. Non penso sia necessario usare strategie (sbagliate) di marketing anche per far del bene».
Daniela – Rapallo (GE)
 
Cara Daniela, il dilemma che lei pone – pubblicare o meno le foto di bambini per una campagna di solidarietà – ci attanaglia da tempo, visto che i nostri progetti sono generalmente in favore dei più piccoli. Abbiamo sempre cercato di affrontare il problema nel miglior modo possibile, anche se non possiamo ancora dire di aver trovato «la» soluzione. Alcune campagne di solidarietà sono state avviate senza l’utilizzo d’immagini, ma non pochi ci hanno detto di averle trovate fredde e «intellettuali». Probabilmente l’immagine, per chi legge di un progetto e lo valuta, è un aspetto irrinunciabile. Abbiamo ricevuto lamentele da parte di donatori indispettiti perché, per esempio, ci siamo rifiutati di pubblicare la foto della famiglia beneficiaria della loro offerta. Ciò significa che c’è ancora molto da imparare, da parte di tutti, perché l’autentica dimensione del dono non ha bisogno né di «prove provate», né di ostentazione, né di marketing del dolore. L’immagine è più empatica e immediata, indubbiamente, ma, come giustamente lei rileva, non è sempre facile evitare il rischio di cadere nel pietismo. Anche nell’ultima campagna, quella da lei citata, si è cercato di coniugare le diverse esigenze. Le assicuro che le foto pubblicate nella rivista e nelle pubblicità sono le meno violente a livello emotivo. Avevamo immagini di corpi piagati, di bambini piangenti, di volti e membra deturpati dalla lebbra: foto vere, che magari avrebbero fatto «buon marketing», ma non sarebbero state rispettose della dignità di quelle persone. Ne abbiamo scelto solo alcune, con cura, coniugando il desiderio dei donatori di recepire e conoscere, anche attraverso una raffigurazione realistica, la situazione che andavano ad aiutare, evitando però ogni eccesso. Non ci siamo riusciti? È possibile. Ma lo sforzo, mi creda, c’è stato: tanto che nella copertina del «Messaggero di sant’Antonio» di giugno, quella appunto che presenta al primo sguardo del lettore la nostra campagna di solidarietà, è stata scelta una foto, assolutamente positiva, di tre bambini vietnamiti che giocano felici. Non la piaga in prima pagina, quindi, ma il risultato che vorremmo ottenere.
 
 
Taliercio, l’incapace di odiare
«Caro padre, in luglio saranno trent’anni dall’uccisione di quel sant’uomo di Giuseppe Taliercio, ammazzato dalle Brigate Rosse a Mestre dopo 46 giorni di prigionia. Io ricordo quei momenti. Taliercio è stata una figura limpida di cristiano, ma sembra finita nel dimenticatoio. Invece avrebbe ancora molto da dire. C’è bisogno di persone come lui, per il rilancio della nostra Italia».
Sergio – Venezia
 

Chi era Taliercio? «Un uomo pacato, ricco di fede, incapace di odiarci», ha rivelato il brigatista che lo torturò e uccise, scaricandogli contro diciassette pallottole dopo averlo tenuto per cinque giorni a digiuno. «La preghiera era il suo mondo insindacabile, dove noi, con la nostra stupida razionalità, non potevamo raggiungerlo», scrisse alla vedova un’altra terrorista del commando. Per la Chiesa è un martire, tant’è che il suo nome è inserito nell’elenco dei 12 mila testimoni della fede compilato per il Giubileo del 2000. Direttore dello stabilimento Montedison di Porto Marghera, padre di cinque figli, cristiano convinto e attivo in parrocchia come nella San Vincenzo aziendale, dirigente amato più dai dipendenti che dai manager: tutt’altra cosa rispetto al «servo delle multinazionali imperialiste» che le Br pensavano di aver messo sotto scacco. In ogni caso, è vero quanto lei denuncia: nonostante l’attuale positiva riconsiderazione delle vittime del terrorismo, la vicenda di Taliercio è rimasta un po’ ai margini, tranne lodevoli eccezioni, come la puntata di La storia siamo noi a lui dedicata, andata in onda su Raidue lo scorso anno. Mi auguro che questi spunti incuriosiscano molti lettori, spingendoli a riscoprire una storia di santità che merita di essere conosciuta.
 
Il «Messaggero» un’eredità di famiglia
«Da anni leggo il “Messaggero” e devo dire che la vostra rivista ha saputo mantenere il passo con una storia e una cultura in rapidissima evoluzione. Da un ristretto devozionismo l’ho vista passare a orizzonti sempre più ampi, fino ad aprirsi al “Cortile dei gentili” per quel dialogo tanto atteso e auspicato fin dai tempi della “Cattedra dei non credenti” del cardinale Carlo Maria Martini».
Adele – Jesi (AN)
 
«Mia madre Chiara era una grande affezionata alla rivista e grande devota di sant’Antonio. Noi tre sorelle siamo cresciute in compagnia del “Messaggero”… Per me il “Messaggero” è diventato un raggio di luce che arriva tramite posta e illumina le giornate in questo mondo difficile in cui viviamo: grazie per la serenità che mi porta!».
Colomba – Casalnuovo (NA)

Queste lettere testimoniano di un «Messaggero» che si tramanda di padre in figlio a motivo di una solida tradizione familiare, ma anche della capacità che la rivista ha sempre avuto di parlare all’uomo contemporaneo.
Ricambio l’affetto che percepisco dalle vostre lettere: per noi è un’iniezione di entusiasmo ma anche la conferma della bontà della strada fin qui fatta.
 
  
CON SMTV SAN MARINO VA SUL SATELLITE
A partire dal 13 giugno, San Marino Rtv, l’emittente televisiva della Repubblica più antica del mondo, è approdata sul satellitare, cambiando anche il nome in SMtv. La televisione di Stato sammarinese è nata nel 1991 e oggi ha due canali radio e un sito web. Lo sbarco sul satellite ha arricchito la programmazione, che è diventata glocal, cioè più internazionale senza smettere di essere locale. Non solo notizie su San Marino e sulle regioni confinanti, ma anche i principali fatti italiani e moltissimo mondo, in particolare i temi politici ed economici legati ai Balcani e al Mediterraneo. Negli approfondimenti, ampio spazio è lasciato a innovazione e sostenibilità, con particolare riguardo agli aspetti etici, sociali e alla solidarietà. SMtv è visibile sul numero 573 di Sky e sul numero 73 di Tivùsat.

«Come giornalista ho a cuore la qualità, la completezza e il pluralismo – spiega Carmen Lasorella, direttore generale di SMtv –. Le dimensioni territoriali non diventano un limite ai contenuti, anzi, l’approfondimento locale arricchisce la lettura dei grandi fatti. SMtv vuole aprire un’altra finestra sul mondo, integrando un progetto d’interscambio culturale sostenuto dai più moderni mezzi di comunicazione. L’emittente si dà l’obiettivo di diventare un punto di riferimento per la politica e l’economia internazionali, ospitate nella televisione pubblica di un piccolo Stato, membro delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa». SMtv è diffusa in chiaro dai satelliti appartenenti alla flotta di Eutelsat – Hot bird ed Eurobird9, rispettivamente sulle posizioni orbitali 13° e 9°est – ed è visibile in tutta Europa, in Medio Oriente e nel Nord Africa, con un’utenza superiore ai 120 milioni di ricevitori.
L.S.
 
 
Lettera del mese 
 
Invidia orizzontale

 
È una nuova tendenza di questo vizio capitale: l’invidia nei confronti dei pari. Un atteggiamento che porta a voler cacciare ancora più giù quelli che già stanno sotto.
 
«Caro padre, se c’è una cosa che oggi mi impressiona è la grande invidia che c’è tra la gente. Si guarda il più bello, il più ricco, l’uomo o la donna di maggior fascino e successo e si vorrebbe essere come loro, o quasi. E per fare questo tutte le scorciatoie sono ritenute percorribili, sia lecite che illecite, tanto che viene scusata ogni forma di plateale immoralità. Che senso ha essere sempre in competizione con quanto gli altri hanno e soprattutto sono? Vuol dire che c’è parecchia scontentezza e che l’unica soluzione ai problemi sta diventando il trasformismo a qualunque costo. Sono così pochi quelli che sono contenti della propria vita, del proprio lavoro, della propria famiglia?».
Anita – Lucca
 

Ognuno di noi è in parte soddisfatto di sé e in parte si sente inquieto, perché abitato da una legittima tensione verso il meglio. Il desiderio di crescere, progredire, far fruttare i talenti rappresenta una tensione positiva, anche quando questo avviene confrontandosi con gli altri, con chi ha più di noi, con chi è già affermato nella vita attraverso la professione, gli affetti e le conquiste personali. Tale sguardo sugli altri si definisce con una parola: emulazione, che precisamente significa desiderio e sforzo di eguagliare e superare. In tutto questo non c’è niente di male, dal momento che l’altro è da stimolo alla nostra volontà e spirito di iniziativa, per cui il confronto ci è di aiuto, nel senso che ci spinge a migliorare. Di questa emulazione, di questo zelo, san Tommaso scrive: «C’è zelo quando uno si rattrista per il fatto che non possiede quei beni che il prossimo possiede». Ma aggiunge subito dopo: «C’è invidia quando uno si rattrista per il fatto che il prossimo possiede dei beni che egli non ha».

Dove sta la differenza? La lettura analitica di san Tommaso fa ben capire che a fare la differenza è ciò che lo sguardo attiva: conseguire quei beni che non si hanno, nel caso dello zelo; fare in modo che il prossimo non li consegua oppure li perda, nel caso dell’invidia. Anche l’etimologia della parola invidia ci conduce nella medesima direzione. Infatti il latino in-video, da cui deriva invidia, significa guardare storto, di sottecchi, fino a guardare-contro e dunque a odiare e voler distruggere. L’invidia, uno dei sette vizi capitali (nel senso che sono a capo di un lungo corteo di altri vizi minori), è un sentimento burrascoso, che porta solo dolore e desolazione, non come la gola o la lussuria che possono vantare trasgressive piacevolezze. Per questo, se non è raro che qualcuno si vanti di eccessi nel campo del cibo o della sessualità, mai nessuno ammette di essere invidioso, per cui tale vizio è chiamato anche vizio inconfessabile o passione triste. Chi lo rivelasse non farebbe altro che palesare la propria inadeguatezza e le sofferenze che ne conseguono, la qual cosa porta a pensare che l’invidioso non è né facile da smascherare e non necessariamente si trova nella cerchia dei lontani.

Sì, cara signora, oggi c’è in giro parecchia invidia, e molti che fanno di tutto – letteralmente – per essere invidiati. Possedere per esibire e ostentare è atteggiamento volgare e diffuso. Tanto che si arriva a indebitarsi per mostrare quello che non si è attraverso quello che si dovrà pagare a rate e con grande fatica. E poi ci sono, nella casistica dell’invidia, nuove tendenze, come rileva Marco Revelli nel suo Poveri, noi, Einaudi. Quella, ad esempio, che vede l’invidia affermarsi non più in senso verticale (alto/basso), ma in senso orizzontale (nei confronti dei pari) fino a voler cacciare ancora più giù quelli che già stanno sotto (tutti coloro, come gli immigrati, che sono percepiti come possibile disturbo al mantenimento del proprio benessere). Qui l’invidia, quando non si attivano vie di nuova solidarietà, si tramuta in rancore e muove verso conflitti orizzontali, guerre tra poveri dove tutti sono perdenti.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017