Lettere al direttore
Regolare le nascite è contro la vita?
«Egregio direttore, abbiamo ascoltato alla radio una bella riflessione su san Francesco, un santo amante della natura come opera di Dio. Egli in ogni creatura vedeva Dio creatore e perciò rispettava il naturale svolgersi delle cose. A tal proposito vorremmo chiederle quale, secondo lei, poteva essere la posizione di san Francesco dinanzi ai metodi di regolazione delle nascite. Non sono forse questi un andare contro natura, un ostacolare l’opera creatrice di Dio? Dio non ha creato la sessualità per il piacere edonistico dell’uomo, ma per la procreazione, e impedirla è ostacolare l’azione di Dio nella storia. Bisogna avere fiducia nella Provvidenza Divina: è lei la grande regolatrice delle nascite. Dio sa bene quello che fa, noi siamo solo suoi strumenti. I figli sono una ricchezza perché rendono responsabili e aiutano i genitori a fare scelte di qualità. I figli sono soprattutto una ricchezza spirituale, perché aprono alla generosità e alla donazione. Al contrario, le teorie che sono a favore della regolazione delle nascite portano all’individualismo, all’arrivismo e alla competitività, e perciò all’egoismo. Si parla tanto contro l’aborto, ma se ai figli non si insegna l’amore alla vita con le parole e con l’esempio, i nostri sforzi sono inutili. La regolazione delle nascite è il primo no alla vita! Un atto sessuale non aperto alla vita è un atto malizioso».
Paolo e Maddalena – e-mail
La Sacra Scrittura ci rivela il volto di un Dio Creatore amante della vita e uno dei segni della sua benedizione per il credente dell’Antico Testamento è il dono dei figli (Sal 127,3). Anche Gesù manifesta una grande tenerezza nei confronti dei piccoli additandoli come esempio per coloro che vogliono entrare nel Regno dei cieli (Mc 10,13-16).
Certamente anche san Francesco condivideva queste convinzioni che sono patrimonio comune di tutti i cristiani, insieme al fiducioso affidamento alla Provvidenza Divina.
Il tentativo di applicare queste verità all’esperienza della famiglia contemporanea, però, non deve portarci a conclusioni troppo semplicistiche e riduttive. Secondo l’autorevole Magistero della Chiesa, i coniugi non sono tenuti a essere meri strumenti passivi di una imperscrutabile volontà divina, ma piuttosto essi sono gli interpreti sapienti, creativi e responsabili della chiamata personale che Dio rivolge loro nella situazione particolare in cui si trovano e che solo loro conoscono veramente.
Per questo gli sposi sono chiamati a una intelligente opera di discernimento delle loro condizioni personali e familiari (fisiche, economiche, psicologiche, sociali, ecc.). Ispirandosi a una giusta gerarchia di valori morali, facendo buon uso dell’intelligenza e della volontà, si dovranno formare una retta coscienza che li conduca a una scelta veramente ponderata e responsabile. Essa potrà legittimamente orientarsi sia alla scelta di far crescere una famiglia numerosa, sia – laddove sussistano gravi motivi – a quella di evitare momentaneamente o a tempo indeterminato una nuova nascita (cf. Humanae Vitae 10).
In questo secondo caso, nella scelta del mezzo efficace per evitare la procreazione, è loro richiesto di non separare il significato unitivo dell’atto coniugale da quello procreativo, rispettando la realtà dei processi biologici e facendo ricorso ai tempi infecondi, secondo le indicazioni dei migliori metodi naturali oggi disponibili. Questi non solo permettono un esercizio responsabile della genitorialità, ma favoriscono una migliore relazione sessuale, improntata al dialogo, alla reciproca conoscenza e al rispetto dei tempi e delle caratteristiche dell’altro. La sessualità, infatti, non è unicamente finalizzata alla procreazione, ma è il «sacramento corporeo» dell’amore coniugale: in quanto lo esprime e lo celebra, lo arricchisce inoltre sempre di più, favorendo l’intima unione personale degli sposi, anche nei casi in cui non sia possibile concepire un figlio (cf. Gaudium et Spes 49-50).
Se è vero che da una diffusa mentalità contraria alla vita procedono come da un’unica pianta frutti velenosi di specie diverse quali l’aborto e la contraccezione (cf. Evangelium Vitae 13), non è però sempre vero che la scelta di una famiglia non numerosa sia indice di egoismo o di disimpegno. Essa può essere il frutto di autentica responsabilità e, non conoscendo le motivazioni, è indispensabile trattare tali situazioni con il massimo rispetto, senza esprimere giudizi temerari. Anche in questo san Francesco ci è d’esempio!
Quanto serve per sposarsi?
«Caro direttore, l’altro giorno ho visto un servizio sui preparativi per il matrimonio. Il mio risale a nove anni fa, ma ovviamente la cosa mi interessa, perché mi ricorda l’apprensione di quei momenti. Il servizio sosteneva che in media gli italiani spenderebbero – per una festa da cento invitati – tra i 30 e i 50 mila euro. Mi sembra folle! Alcuni fidanzati poi (gli intervistati erano tutti per forza over 40) confermavano che la loro spesa sarebbe stata quella. L’insieme mi è sembrato un ottimo spot per disincentivare il matrimonio. Per forza poi la gente va a convivere!».
Una lettrice felice di essere sposata
Non ho visto il servizio cui fa riferimento, ma la sua testimonianza mi dà l’opportunità di porre una domanda: che cosa davvero conta quando ci si sposa? Perché alla fin fine mi sembra questo il messaggio che l’ha scandalizzata: la porta d’accesso alle nozze è il capitale investibile e c’è chi può permetterselo e chi no.
Faccio allora appello alla mia esperienza personale di invitato o celebrante di matrimoni, raffigurandomi le famiglie che ho visto nascere. Ho partecipato a feste lussuose, e ad altre più parche; ho conosciuto coppie che potevano permettersi di investire molto nel ricevimento ma che hanno scelto diversamente, per i più svariati motivi; altre che non hanno badato a spese ma che per farlo sono ricorse alle banche, ingrossando il debito trentennale del mutuo. Gli esempi potrebbero essere tanti. Quello che mi interessa dire è che la «consistenza» della coppia non si misura dallo sfarzo della festa di nozze. Restando agli esempi concreti, conosco famiglie che si sono dolorosamente sfasciate in poco tempo pur avendo alle spalle un ricevimento faraonico, e altre la cui felicità non ha risentito di più sobri festeggiamenti. Questa conclusione empirica non deve però essere un alibi che spinge al ribasso: un matrimonio va degnamente festeggiato, perché è davvero una tappa importante, che non ammette sciatterie, consci comunque che il vero «vino della festa» – vedi quanto accaduto alle nozze di Cana – non lo procurano gli sposi né è acquistabile con carta di credito.
Onora cioè rispetta te stessa
«Salve, sono Gloria e vorrei che qualcuno mi spiegasse il comandamento “Onora il padre e la madre”. Secondo me è un comandamento incompleto. Dovrebbe essere “onora il padre e la madre che ti hanno amato”, no? Come si fa ad amare delle persone che ti hanno abbandonato affettivamente, che non ti hanno guardato, parlato, che non hanno giocato con te perché per loro eri un fastidio? Come si fa ad amare chi non ti ascoltava e non ti considerava? La lista potrebbe essere lunga e potrei scrivere cose ben più gravi... E come si fa quando questi genitori disamorevoli sono anziani, peggio ancora se devi lavarli, cambiarli, imboccarli? Non tutti i figli non amati possono abbandonare a loro volta chi non li ha amati. Perciò: che cosa significa quel comandamento? Grazie».
Gloria – e-mail
Cara Gloria, la tua storia così difficile non ti esime dal fare i conti con le tue radici. Il comandamento «Onora il padre e la madre» sta infatti a significare onora chi ti ha dato la vita, cioè onora le tue radici, la tua origine. Perché solo se onori, cioè rispetti, le tue origini riesci ad avere rispetto per te stessa, a volerti bene. Questo non significa che i genitori che hai avuto siano perfetti, anzi. Il monaco benedettino Anselm Grün, intervistato sull’argomento, sottolinea come non esista educazione che non provochi ferite e che dunque il comandamento in questione non deve impedirci di guardare alle cose con sano realismo, riconoscendo le mancanze (anche gravi) dei nostri genitori.
Con queste mancanze, e soprattutto con la sofferenza che ci hanno provocato, siamo chiamati a venire a patti. Ciò significa, spesso, prendere le distanze dal proprio dolore, dal bambino ferito che è in noi, per capire, innanzitutto, che ricerchiamo e pretendiamo ancora, da adulti, un amore che ci è stato negato da piccoli e del quale non abbiamo più bisogno. Perché oggi il nostro bisogno affettivo trova risposta in altre relazioni significative, come quella coniugale o amicale, che presuppongono un rapporto tra persone adulte e alla pari. Lascia andare, quindi, la tua sofferenza e non restare ancorata al passato. Prova a pensare che i tuoi genitori ti hanno amata come sono stati capaci, seppur con esiti sbagliati o insufficienti. Prova a vedere le cose dal loro punto di vista, pensando quanto hanno perso, anch’essi, nel non saper esprimere in modo adeguato amore alla propria figlia. Quanto hanno perso in affetto, gioia, piccoli e grandi momenti felici. Cara Gloria, hai davanti a te un’esistenza nella quale poter dare e ricevere amore, andando oltre il rancore che ti blocca. Perdona, e perdonando staccati dal dolore. È un atto d’amore, prima di tutto, nei confronti di te stessa.
Lettera del mese. Metamorfosi di Ognissanti
Halloween: solo zucche vuote?
Halloween ha radici in una festa celtica. Il cristianesimo la trasforma nella ricorrenza di Tutti i Santi. Ripaganizzata, scade a rito commerciale. Mutamenti che fanno pensare.
«Gentile direttore, mi pare che i cristiani siano un po’ troppo tiepidi e ambigui nei confronti della festa pagana di Halloween. Anzi, alcuni parroci chiudono un occhio quando negli spazi della parrocchia si organizzano vere e proprie sfilate di maschere horror, ritenendole innocue. Bisogna essere più chiari!».
Lettera firmata
Da alcuni anni ricevo missive di lettori che mi invitano a intervenire con durezza nei confronti della festa neopagana di Halloween. Verrebbe a minare la festa cristiana di Ognissanti – tra le più partecipate dalla gente, anche per il suo stretto legame con il giorno e il culto dei defunti –, che tenderebbe a sostituire con truci e scheletriche maschere e zucche vuote. Le origini di Halloween vanno cercate nella festa celtica di Samhain: letteralmente fine dell’estate. In Irlanda, territorio non colonizzato dai romani, questa e altre feste sono sopravvissute a lungo e ancora oggi lasciano traccia. Sappiamo che i celti dividevano l’anno in quattro parti e con Samhain, il primo novembre, aveva inizio la stagione invernale nonché il nuovo anno, comunque un periodo difficile (per il freddo e la carenza di cibo) che i più deboli non avrebbero probabilmente superato. Si accendevano così dei fuochi da cui ogni famiglia, in modo propiziatorio, prendeva il «nuovo fuoco» da custodire in casa. Inoltre era diffusa la credenza che le anime di coloro che erano morti nel corso dell’anno avessero per una notte accesso al mondo dei vivi: per guidarle sulla via del ritorno, si accendevano candele, torce, piccoli fuochi sulle finestre delle abitazioni, luogo nel quale si lasciava anche del cibo in segno di benvenuto.
È curioso notare come da queste premesse lontane si afferma, a partire dalle Chiese cristiane del Nord Europa, la festa di Tutti i Santi, in pratica un’evidente cristianizzazione di Samhain. A metà del IX secolo essa è accolta ufficialmente da tutta la cristianità, mentre, a partire dal 998, viene istituita la Commemorazione dei defunti. Intanto la festa di Halloween (storpiatura dell’inglese All Hallows’ Eve: vigilia di tutti i santi) passa dall’Irlanda all’America del Nord. Qui si commercializza – per cui già dal 1910 le fabbriche americane realizzano a pieno ritmo prodotti legati alla festa –, e invece di riflettere, come all’origine, una solidarietà buona tra il mondo dei vivi e dei morti, assume sempre più tratti macabri che sfiorano l’horror. I bambini, che nei film americani intimano trick-or-treat e in Italia «dolcetto o scherzetto», solo a partire dagli anni Cinquanta sono coinvolti nella festa, prima riservata ai soli adulti. Dunque, Halloween a stelle e a strisce diventa la notte di zucche, streghe, gatti neri, mostri e fantasmi, una sorta di ritorno – in tono minore e con grande superficialità – all’antica festa celtica di Samhain. Dopo essere stata cristianizzata, attraverso una lenta metamorfosi, la vigilia del capodanno celtico avrebbe assunto espliciti tratti anticristiani. Assolutamente vero e da riprovare, anche se sono convinto che lanciare crociate contro Halloween – soprattutto quando i soggetti coinvolti hanno un orizzonte culturale privo di alfabeto religioso – non sia produttivo di comportamenti alternativi. Se purtroppo soggettivismo e sincretismo qualificano in modo massiccio gli atteggiamenti religiosi contemporanei, è necessario educare in profondità, offrire più larghi orizzonti, anche mostrando che questi sono abitabili e non penalizzanti l’espressione della soggettività, alla quale offrono invece unificazione. Nel nostro caso si tratta di aiutare, soprattutto i giovani e i ragazzi, a sentire benevolmente vicini i defunti, offrendo una concezione corretta e armonica (che non significa addolcita) della morte. I defunti, «godendo della vita immortale, ci proteggono nel cammino verso il Regno» (santa Messa di Ognissanti). Impariamo nuovi stili educativi e nuovi linguaggi dal mistero che celebriamo.
LETTERE AL DIRETTORE scrivere a: redazione@santantonio.org