Lettere al direttore
Governo Monti, opportunità per la politica
«Gentile direttore, sto seguendo il più possibile da vicino quanto sta avvenendo nella nostra politica. Mi piacerebbe sapere cosa pensa del nuovo governo non eletto dal popolo guidato da Monti, che almeno ha il pregio di essere un cattolico. La democrazia è sospesa?».
Guglielmo – e-mail
Il suo quesito mi è giunto proprio nel giorno di chiusura del numero che ha in mano: le rispondo mentre la squadra di governo è ancora incompleta dei viceministri e dei sottosegretari, e prima che sia stata varata qualche misura, quindi al buio, in un certo senso.
Sono dell’idea che il governo di Mario Monti non sia una sospensione della politica e tanto meno della democrazia. Il fatto che le nostre istituzioni (a partire dal Capo dello Stato) abbiano trovato un modo per affrontare la difficile congiuntura internazionale e la grave crisi di credibilità del nostro Paese chiamando in causa persone competenti, è una prova che la democrazia italiana possiede anticorpi per affrontare anche situazioni drammatiche. Altro che collasso della Repubblica: ci sono gli elementi perché questa sia una stagione di rinascita.
Non trovo banale, inoltre, il coinvolgimento di uomini e donne di provata professionalità e dallo stile sobrio; che poi alcuni ministri provengano dal mondo cattolico può essere positivo, per il fatto che quello cristiano è un campo fertile di energie da mettere a disposizione del bene comune, anche se non è l’appartenenza alla Chiesa il motivo del reclutamento: sarebbe far loro un torto affermare il contrario.
In tutto ciò, la politica non si tiri fuori. Usi questo particolare periodo per riguadagnare la credibilità perduta, sostenendo le scelte da fare per il bene della collettività, anche quando difficili e impopolari. Buoni, cioè di lavoro vero e proprio per il Paese, saranno soprattutto i primi mesi, dopo i quali verrà lanciata una lunga e (al solito, spiace dirlo) aspra campagna elettorale. In ogni caso, l’alternativa al governo Monti è il default (letteralmente «fallimento») che finiremmo per pagare tutti pesantemente, a partire da chi è più svantaggiato. Da parte del neopresidente del Consiglio, coniugare rigore, crescita ed equità – che è il suo leit motiv –, non sarà facile, anche perché i corporativismi non muoiono come per incanto, e fare il «lavoro sporco» non ha mai prodotto consenso. Quel consenso di cui la politica è schiava perché ogni partito deve curare gli interessi dei suoi, importanti ma pur sempre di parte. Motivo per cui ha passato la mano, facendo un passo indietro.
C’è infine un’altra responsabilità per i politici che siedono in parlamento: sono loro a fare le leggi, non il governo. Nei prossimi mesi, ad esempio, sarebbe giudicato atto coraggioso di questa legislatura riscrivere la legge elettorale, permettendo così ai cittadini di scegliere direttamente i propri rappresentanti alla Camera e al Senato. Gli italiani ringrazierebbero.
L’etichetta «davvero cristiani»
«Caro padre, sono un po’ disorientata. Tutto è nato quando alcune amiche mi hanno voluto presentare quella che, a loro dire, è una famiglia “davvero cristiana”. Incuriosita, ho accettato. Mi sono trovata subito a disagio, non tanto per la differenza nelle scelte che queste persone hanno fatto, ma per il modo assoluto con cui le proponevano. Un esempio: non hanno la televisione. Scelta magari lodevole, che loro però prospettavano come l’unica possibile per un cristiano. Io, inutile sottolinearlo, la tv ce l’ho e la guardo pure. Non vorrei usare lo stesso peso e la stessa misura giudicando troppo sbrigativamente, ma credo non sia la durezza il modo corretto per testimoniare la fede».
Silvia – Viterbo
Ritenersi «i davvero cristiani» è un vecchio vezzo che ciclicamente ricompare nella storia del cristianesimo. Del resto, è un fenomeno trasversale a tutte le appartenenze. C’è chi si sente «il vero tifoso» della propria squadra, «il vero esperto» di quella tal materia, «la vera massaia» nel governo della casa. Fateci caso: sono tutti titoli che, a partire da una competenza magari anche reale, puntano a isolare coloro che se ne vantano rispetto a chi non è ritenuto degno dello stesso credito. Gli altri, anche quelli che riconoscono il nostro valore, sono comunque disprezzabili e deprezzati, perché non sono allo stesso livello, in ogni caso ritenuto irraggiungibile… Infatti, potremmo con facilità sostituire l’aggettivo «vero» con «unico»: chi si ritiene «il vero» (tifoso, cristiano, esperto…), di fatto pensa di essere «l’unico» vero (tifoso, cristiano, esperto…), o comunque facente parte di un club esclusivo estremamente ristretto e selezionato, dove vige il continuo sospetto e il severo controllo reciproco per estromettere al minimo cedimento chi perda l’etichetta di «puro». In campo religioso, Gesù stesso ha messo in guardia dalla tentazione di ritenersi e comportarsi da «veri/unici» fedeli. In realtà siamo tutti alla sequela di Gesù perché chiamati da lui, ciascuno con una vocazione particolare. «Particolare» significa, certo, specifica, ma indica anche e in prima istanza che si tratta di una parte di un tutto molto più grande. Nessuna vocazione, infatti, può ritenersi assoluta. Per esempio: il consacrato ha bisogno del modo di vivere il Vangelo dello sposato, e viceversa. Una vocazione illumina l’altra. Nessuna è assoluta, ma tutte sono complementari. A scalare, questo vale anche per le molte scelte motivate dalla fede. Rinunciare alla tv può essere una scelta di fede? Sì, ma non di necessità per tutti: il giornalista che deve seguire i fatti della cronaca non può rinunciarvi, ma nemmeno il laico impegnato in politica, ad esempio. La questione, al solito, non è il mezzo, ma l’utilizzo che se ne fa.
In conclusione, i «veri cristiani» esistono eccome: oltre ai santi, canonizzati e non, sono le tante persone comuni che vivono nella fede, cercando, giorno per giorno, di fare del proprio meglio nella sequela di Cristo, accanto e insieme agli altri.
Natale in famiglia, nonostante tutto
«Caro direttore, sono una nonna dispiaciuta, in questo momento, per quello che è successo a mio figlio. Sua moglie, madre dei nostri tre nipotini, ha voluto separarsi ed è andata da poco a vivere in un’altra città con i bambini. Abbiamo cercato di evitare che si arrivasse a questo, ma è successo. È il primo Natale così. Gli anni scorsi lo trascorrevamo infatti tutti insieme, con i nipoti. Io e mio marito siamo molto preoccupati per il benessere dei piccoli che rischiano di vivere questi giorni, anziché in una serena atmosfera natalizia, come in un brutto sogno. Stiamo male per loro e le immagini di famiglie unite e felici trasmesse dalla televisione in questo periodo ci rendono paradossalmente ancora più tristi…».
Una nonna ferita
Gentile signora, posso capire la sua amarezza di fronte a questa situazione e anche la sua preoccupazione per i nipoti. Quello che lei può fare, ora, è spiegare ai bambini che se anche i loro genitori non stanno più insieme, per loro saranno sempre presenti. La cosa migliore sarebbe, se possibile, che i due genitori si sforzassero di accantonare anche solo per un giorno le tante tensioni dell’ultimo periodo e trascorressero la giornata di Natale insieme con i bambini, per far sentire loro che la vicinanza genitoriale non viene meno, che è possibile dire una preghiera insieme e insieme scartare i doni. Così la pensa anche Fulvio Scaparro, psicoterapeuta e nostro collaboratore, che, interpellato su un caso analogo, scrive: «L’ideale sarebbe che papà e mamma riuscissero a stare vicini ai figli, insieme, in certe occasioni importanti… Non si tratta di ipocrisia, ma di riconoscere il fatto che si resta genitori anche dopo una separazione».
Se ciò non fosse possibile in questo primo Natale e i genitori decidessero di trascorrere la festa in due case diverse, voi nonni continuate a celebrare tutti i riti degli anni scorsi, così da contribuire a non far sentire i vostri nipoti diversi dagli altri bambini. Mostratevi allegri con loro, comunicando che il Natale è Gesù che viene in mezzo a noi, per tutti, che il Natale è accoglienza. Regalate, soprattutto, del tempo e molta complice serenità ai vostri nipotini. Buon Natale!
Il nostro essere sposi? Non ha prezzo!
«Ho visto la lettera “Quanto serve per sposarsi” sul “Messaggero” di novembre e da neo-sposa ho pensato di portare la nostra testimonianza. Sono convinta che per sposarsi serva innanzitutto... decidere di farlo! E non credo che la scelta della convivenza abbia ragioni economiche. Per noi la priorità è stata data al Sacramento. Una volta scelto, abbiamo “prenotato” celebrante e chiesa e questo ci è sembrato sufficiente; tutto il resto sarebbe venuto poi, con fiducia nella Provvidenza. Il giorno del matrimonio è stato meraviglioso! La partecipazione era in primis un invito alla celebrazione, vissuta coinvolgendo tanti amici per preparazione, coro, foto... Il banchetto, nel salone dell’oratorio, ha evitato le lunghe attese e le “limitazioni” che fin da piccola mi trovavano insofferente in queste occasioni. Abbiamo scelto un catering che ci ha permesso di destinare parte delle somme impiegate a progetti solidali; lo stesso abbiamo fatto per le bomboniere. Alla fine tutti si sono detti soddisfatti. La nostra spesa (con oltre 200 invitati) non si avvicina nemmeno alla più bassa citata nella lettera… E il nostro essere sposi non ha prezzo!».
Da due mesi signora
Lettera del mese. Cristianesimo e religioni
Soffia lo «spirito di Assisi»
Benedetto XVI lo scorso 27 ottobre ha voluto dare lustro, venticinque anni dopo, all’iniziativa del suo predecessore, recandosi personalmente in Assisi a pregare per la pace. E ha voluto intorno a sé anche alcuni non credenti, allargando così il cerchio del dialogo.
«Caro direttore, nemmeno Benedetto XVI, da molti descritto come Papa tradizionalista e poco incline al dialogo tra le religioni, ci ha risparmiato una riedizione dell’evento di Assisi 1986. Il 27 ottobre scorso si è infatti recato nella città del Poverello con ben trecento persone (rappresentanti delle religioni e delle confessioni cristiane) e ha fatto memoria dei venticinque anni dello “spirito di Assisi”. Non c’è già abbastanza confusione in giro (le religioni sono ormai ritenute equivalenti e per molti una vale l’altra) per cui sarebbe meglio evitare manifestazioni pubbliche che ne danno motivo? Io sono un povero cristiano che però non intende annacquare la sua fede, e vorrei anche, da parte della gerarchia, più chiarezza, meno ambiguità».
Carlo, cristiano tutto d’un pezzo
Caro Carlo, anch’io penso che la fede sia un grande dono che va custodito nella sua integralità, visto che oggi i rischi che corre sono molti, a volte anche subdoli. Troppe volte la società ci chiede di metterla tra parentesi, perché solo così – ci viene detto – è possibile essere cittadini emancipati e responsabili. Credere in qualcosa (per noi cristiani in Qualcuno) ed esprimere questa convinzione con coerenza di vita è spesso ritenuto socialmente destabilizzante, perché l’atto del credere viene considerato a rischio di fondamentalismo: se io credo – così ripete la volgata – non posso che mettere in atto forme di coercizione per imporrre ciò che credo. Si tratta della vecchia storia della verità che sarebbe per sua natura intollerante.
Ora, da questo punto di vista capisco le tue perplessità quando sospetti che siano anche le religioni e la volontà di dialogo con le stesse a chiedere di mettere tra parentesi la fede che come cristiani professiamo. Sbagli, in questo senso, ce ne sono stati e a volte si rischia di fare le cose con leggerezza. Non è questo, però, il caso degli incontri di preghiera per la pace di Assisi, a partire dal primo, nel 1986, che ha fatto scalpore. Qui, come ha chiarito espressamente Giovanni Paolo II, non ci si è trovati per pregare insieme ma insieme per pregare, vale a dire ognuno secondo la propria tradizione religiosa. Già venticinque anni fa era chiaro, e oggi lo è ancor più, che non si possono usare le stesse ritualità e le medesime formule quasi si trattasse di realtà interscambiabili, e che nemmeno è possibile una «preghiera minimalista», che mette tutti d’accordo. Si tratta di operazioni da evitare e che ad Assisi sono state sempre accuratamente evitate: la simultaneità della preghiera ha sempre visto i gruppi religiosi radunati in luoghi diversi. E poi c’è da dire che ad Assisi sono stati visibilizzati altri segni sui quali le religioni convergono – certo senza uniformarsi – più facilmente: il pellegrinaggio e il digiuno. Camminare insieme in un silenzio abitato dalla preghiera e con animo aperto alla trascendenza, così come affinare il proprio desiderio attraverso la sobrietà del cibo, sono segni profondamente religiosi che creano sintonia d’intenti.
Per quanto riguarda lo scorso ottobre, credo che ancora una volta Benedetto XVI abbia spiazzato i suoi interpreti. Ha dato lustro all’iniziativa del predecessore recandosi personalmente in Assisi e volendo intorno a sé, oltre ai rappresentanti delle religioni, alcuni non credenti in ricerca. Per significare che il cerchio del dialogo non va ristretto bensì allargato a coloro che vivono l’inquietudine dell’assenza di Dio, a coloro che avvicinano Dio anche solo come Sconosciuto. È l’idea, del tutto originale, lanciata un paio di anni fa da Benedetto XVI, di aprire un «Cortile dei gentili», iniziativa affidata alle cure del cardinale Gianfranco Ravasi e già fruttuosa. Ultima cosa: come francescano sono convinto che Assisi, nel nome del suo figlio più illustre, san Francesco, sa parlare al mondo. Di pace, solo di pace, senza ambiguità di sorta.
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