Lettere al direttore
Che fare quando i bambini litigano?
«Sono catechista di un gruppo di bambini di terza elementare. Mi capita spessissimo di dover dirimere litigi, anche molto aspri, tra loro, specie quando giocano. Molte volte proprio il momento che dovrebbe essere di serenità e divertimento si trasforma in uno spazio di scontri tra opposte fazioni. Io intervengo cercando di rappacificarli, magari di difendere quello che mi sembra più debole. Ma non è detto che la cosa funzioni. Anzi, a volte il mio intervento offende altri che si sentono ingiustamente rampognati. Insomma mi sembra che la pace e la concordia non siano conquiste facili per gli esseri umani, fin da piccoli».
Lettera firmata
Il suo disagio, peraltro condiviso dalla gran parte dei genitori e degli educatori, poggia su una convinzione radicata – tipica della pedagogia tradizionale – secondo la quale il conflitto è di per sé negativo, trattandosi di un punto di rottura dell’armonia che va sanato nel più breve tempo possibile. In realtà non si può arrivare all’armonia, alla comprensione, alla pace se non tramite la capacità di affrontare, gestire e mediare il conflitto; in altre parole conflitto e armonia – dicono gli esperti – sono le due facce di un’unica medaglia, e non ci può essere incontro vero se non c’è stato anche lo scontro. Buona e giusta la teoria, ma – lei mi dirà – il problema rimane. Che cosa dunque consigliare a un adulto in balìa di un litigio tra bambini? Alcuni consigli interessanti in materia si trovano nel libro Dalla parte dei genitori del pedagogista Daniele Novara (Franco Angeli), tra l’altro un esperto in mediazione familiare. Innanzitutto mai parteggiare, nemmeno a favore del più debole, e mai cadere nella trappola di cercare il colpevole, ma assumere un atteggiamento di «neutralità formativa», senza aver nessuna fretta di risolvere la questione. L’obiettivo è quello di portare i bambini a gestire autonomamente i loro conflitti. Un buon mezzo per farlo è quello che Novara chiama «decantazione narrativa», che consiste per esempio nel chiedere ai bambini di dare la propria versione dei fatti senza offendere o minacciare l’avversario. Lo sforzo che viene loro richiesto toglie animosità e impegna in prima persona a trovare una soluzione. Assecondare, dopo il conflitto, il bisogno di ricostruire il rapporto ricorrendo a dei riti di riappacificazione, può far comprendere ai bambini che il litigio non è un assoluto ma un momento di crescita. Le mie parole nulla tolgono alle difficoltà che tutto questo richiede. Eppure, fare opera di educazione alla pace nei rapporti potrebbe essere un grande valore aggiunto della sua ora di catechismo.
Quale futuro per la mia piccola impresa?
«Nel numero di novembre scorso, mi ha colpito l’articolo in cui l’arcivescovo GianCarlo Bregantini riportava la storia a lieto fine di una piccola cooperativa che, grazie al coraggio e alla perseveranza di un gruppo di donne, è riuscita a decollare. Storia che mi ha dato speranza e allo stesso tempo ha acuito dubbi e paure. Anch’io, assieme alla mia socia, ho una piccola azienda artigianale di gioielli sia in argento che in ottone. Esportiamo all’estero e ci rinnoviamo sempre… La fatica è tanta ma i risultati sono pochi, il tutto condito da critiche da parte di mio marito che, forse più realista di me, mi dice che devo smettere di sognare, perché di sogni non si vive. Nonostante i miei sforzi per rimanere ottimista e credere in quello che faccio, spesso vengo sopraffatta dal buio totale, dove non vedo alcuna via d’uscita e speranza».
Laura
Non sono un esperto di piccola e media impresa e non mi sento in grado di darle consigli pratici. Tuttavia, grazie a servizi e ricerche che abbiamo fatto in redazione sul tema, insieme con economisti e associazioni di categoria, posso dirle che, a livello generale, l’intuizione dell’arcivescovo Bregantini è più che fondata. Una recente ricerca della Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna), che abbiamo citato in un corposo dossier proprio nel novembre scorso, dimostra che la piccola impresa artigiana ha molte frecce al suo arco se impara a coniugare l’innovazione con la tradizione, la capacità di creare prodotti unici a misura di cliente con l’attitudine a proporsi in modo originale sui mercati esteri. Il consumatore è sempre più stanco di prodotti standard: ricerca oggetti originali, che racchiudono storie e offrono esperienze. Tutto questo richiede impegno, perseveranza, creatività, saper fare e, me lo lasci dire, anche una dose di sogno e di amore per il proprio lavoro. Questo dicono le ultime ricerche. Certo, quando si hanno pochi mezzi, trovare da soli i canali per far evolvere il proprio business, specialmente all’estero, è cosa ardua. Ma so che oggi le associazioni degli artigiani si stanno organizzando per dare un servizio in tal senso. Inoltre fa ben sperare la reintroduzione dell’Istituto del commercio estero, abolito dal precedente governo, ente che ha proprio il compito di guidare le piccole aziende fuori dall’Italia. Quello dell’artigianato è un mondo in evoluzione, ha una lunga tradizione ed è il cuore del made in Italy: è indubbio che alcuni economisti lo guardino con interesse e, addirittura, come una delle possibili risposte alla crisi. Se il suo è un sogno – quindi – credo sia un sogno «a occhi aperti».
A tredici anni già su Facebook?
«Caro direttore, non so come comportarmi con mio figlio, che ha quasi 13 anni. Faccio fatica a frenarlo sulla tecnologia. Sul cellulare abbiamo ceduto, ma lo porta con sé solo in determinate circostanze (non a scuola, ad esempio). Il problema è che adesso insiste per passare sempre più tempo su internet, e vorrebbe iscriversi a Facebook. Già non mi fido a lasciarlo da solo davanti alla tv, soprattutto dopo cena, figuriamoci davanti al computer! Ho provato a confrontarmi con le altre mamme, ma finora non ho trovato soluzioni».
Cristina - Verbania
Temo che anche dal confronto con me non uscirà la soluzione bella e confezionata che cerca. Del resto, sarebbe facile dalla mia posizione usare toni semplificatori e categorici tuonando contro la tecnologia, internet, i social network, la televisione, i cellulari e via dicendo. Facile, ma sbagliato. Evidentemente ne è consapevole anche lei: la tensione educativa che la spinge a interrogarsi sull’uso della tecnologia, nasce in parte dalla consapevolezza che questi mezzi di comunicazione, di per sé, sono una risorsa positiva. Ma è pure vero che non ci si mette alla guida di un’auto – altro strumento utile quanto pericoloso – prima dei 18 anni, e si rimane comunque prudenti guidatori ben oltre il conseguimento della patente, per non danneggiare sé e gli altri. Restiamo sull’esempio automobilistico: non ci si improvvisa autisti, giusto? Anche il diciottenne più sveglio ha bisogno di studiare la teoria, da solo o con un docente, e di fare almeno un certo numero di guide in compagnia di un adulto esperto, prima di affrontare l’esame della patente. Ora, non esiste un iter analogo per navigare in internet o per iscriversi a un social network, come Facebook o simili. Il principio, però, è lo stesso, e non vale la scusa che i ragazzi «ne sanno più di noi», perché all’inizio non è affatto così. Sedersi fianco a fianco di fronte al computer e navigare insieme, su siti qualsiasi o su Facebook – a cui comunque non ci si può iscrivere prima dei 13 anni – può aiutare a cogliere gli aspetti positivi della rete, e al tempo stesso a mettere in guardia dai pericoli, insegnando il «galateo» dei social network. Qualche esempio: non pubblicare dati sensibili (telefono, indirizzo di casa, o simili), foto private, non accettare l’amicizia di persone sconosciute. Convinciamo i nostri ragazzi che quanto mettono sul web, foto comprese, è incancellabile e che condividere informazioni private con gli «amici degli amici» è come darle a chiunque. Per concludere, vorrei rivolgermi a lei e a suo marito, insieme: non a caso nella sua lettera a un certo punto passa al «noi». L’alleanza tra genitori è molto importante per avere credibilità agli occhi del figlio. Vorrei dirle: non abbiate timore dei compromessi sani e delle regole. Come già fate per l’uso del cellulare o del televisore, date tempi, modalità e limiti di utilizzo, ponendo anche mete alternative: fare esperienze in famiglia, nell’associazionismo, invitare gli amici a casa. Trovarsi insieme di persona è più divertente che scambiarsi solo informazioni attraverso Facebook.
Crisi di coppia per la vicina invadente
«Un paio di anni fa la vicina del piano di sopra ha divorziato e ora vive sola con un bambino di 7 anni, coetaneo di uno dei miei figli. Prima del divorzio le nostre famiglie non si frequentavano quasi; poi, vuoi per solitudine, vuoi per aiutare suo figlio a superare il trauma, la mia vicina ha cominciato a venire a casa mia con regolarità. Ho accettato di accoglierla di buon grado, comprendendo le sue difficoltà e quelle del bambino. Il problema è che col tempo la mia vicina ha cominciato a non rispettare più alcun orario, tanto che ora piomba in casa mia in qualsiasi momento, quando stiamo mangiando o mettiamo i figli a letto. Con noncuranza mi segue per le camere ed è capace di fermarsi per ore. Da alcune settimane, se non mi vede per un giorno intero, mi tempesta di telefonate, e siamo arrivati all’assurdo che rientriamo in casa nostra senza far rumore per non vedercela piombare all’improvviso. Mio marito è molto arrabbiato con me e mi accusa di essere una debole. Per questo spesso litighiamo. Io provo un misto di irritazione e senso di colpa, vorrei reagire ma poi mi blocca il fatto che ha così tanti problemi…».
Luisa – Avellino
Cara Luisa, aiutare, confortare e condividere sono sicuramente comportamenti ammirevoli e comprendo anche la sua difficoltà a gestire il rapporto con la vicina, visto che ci sono di mezzo fatti dolorosi e il trauma di un bambino. Tuttavia credo che non si debba fare il bene a scapito di un altro bene; fuor di metafora, non credo sia giusto sacrificare i momenti importanti della vostra famiglia, per esempio quello in cui si mangia e ci si rincontra dopo una giornata di impegni o il rito delicato del portare a letto i bambini, lasciando ad altri, per quanto in difficoltà, la determinazione dei vostri spazi di vita. Per di più, lo squilibrio nel rapporto con la sua vicina sta addirittura causando litigi e incomprensioni con suo marito, e la cosa si fa seria. Credo che lei debba, quanto prima, parlare con la sua vicina, per quanto difficoltoso possa essere, e cercare di ristabilire delle priorità. Ogni rapporto umano ha bisogno di spazi, regole, confini. Non per indifferenza o egoismo, ma per permettere a un bene di crescere e svilupparsi accanto a un altro bene.
I grazie dei nostri lettori
«Sono un’affezionata lettrice, mamma di quattro figli, due adolescenti e due piccoli: educarli è difficile e le vostre lettere sono un toccasana. Spesso non so come trattare certi argomenti, soprattutto con i più grandi, e spesso, durante il pranzo, leggo loro le informazioni più utili che traggo dalla vostra rivista. Oggi, appena arrivato il “Messaggero”, ho letto subito anche l’editoriale “Giovani al futuro, quale?”. Che meraviglia! Non sarei mai riuscita a dare parola a quello che provo per il futuro dei miei figli, ma nell’articolo padre Ugo usa termini e frasi eccellenti, comprensibili a tutti. Siete fantastici. Grazie per l’aiuto che mi date ogni mese. Mi piacerebbe fosse dato più spazio alle lettere, e se poi il direttore volesse scrivere di più, come non applaudirlo!».
Rosa – Verona
«Chi le scrive è figlio di una signora che non è più in vita da quasi vent’anni, ma che è sempre stata devota del Santo di Padova, così come lo era mio padre. La mia famiglia è abbonata al “Messaggero” da più di cinquant’anni, abbonamento che rinnovo sempre a nome di mia madre. Per favore, continuate così: il vostro stare al passo con la vita di oggi e con i mezzi di comunicazione senza inquinare la parola della fede e senza cancellare il calore umano che traspare dalle vostre risposte è qualcosa di incredibile».
Raffaele - Termoli (CB)
Un grazie sincero ai tanti lettori che ogni mese ci scrivono esprimendo il loro apprezzamento alla rivista. È merito vostro se il «Messaggero» continua a essere il primo mensile d’Italia, letto da quasi 2 milioni di persone. A dimostrazione del fatto che, se si cerca di offrire un’informazione corretta, senza gridare le notizie e cercando di interpretare e dare voce in modo competente a una realtà sempre più complessa, i lettori se ne accorgono e premiano questo stile con la loro fedeltà.
D’altra parte il nostro modello comunicativo è grande: è sant’Antonio stesso, santo amatissimo che sapeva parlare agli umili come ai potenti, denunciando i mali del suo tempo senza mai essere fazioso e, soprattutto, senza mai perdere la speranza.
Lettera del mese. Chiesa e Ici
Tassare la solidarietà alla pari del business?
L’esenzione dell’Ici riguarda solo alcuni immobili con caratteristiche precisate dalla legge, che valgono per gli enti non profit. Per il resto, la Chiesa paga, come tutti.
«Caro direttore, trovo barbara la campagna di pressione messa in piedi dai radicali e seguita in maniera pedissequa da tanti politici di destra, di sinistra e della Lega, sul mancato pagamento dell’Ici da parte della Chiesa. Probabilmente ai politici non sarà parso vero di trovare una “vittima sacrificale” che facesse distogliere lo sguardo dalle loro malefatte e privilegi…».
Mario - Savona
Cosa si sta gridando da più parti? Che la Chiesa non paga l’imposta sugli immobili, la famosa Ici, ora ribattezzata Imu. Se tutti gli italiani devono tirare la cinghia, si incalza, perché la Chiesa no? Già, perché no? Molto semplice, perché la paga già, secondo quanto richiesto dalla legge italiana, ovvero la 222 del 1995. Per capire come stanno davvero le cose, è necessario sapere chi per legge (e non perché se l’è inventato) è esente da questa imposta: tutti gli immobili utilizzati da un «ente non commerciale», ovvero non profit, e destinati «esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive», o solidaristiche o di religione o di culto. Questo vale quindi per molteplici soggetti: enti cattolici, ma anche valdesi, ebraici o musulmani, per esempio. Vale inoltre per associazioni laiche come l’Arci (storica sigla di sinistra con oltre un milione di soci e più di 5.500 circoli), o associazioni per disabili, solo per citarne alcune. Ma con alberghi, ristoranti, librerie, appartamenti in affitto e simili, come la mettiamo? Queste strutture pagano già l’Ici, anche se di proprietà della Chiesa. E non esiste il troppo e troppo superficialmente citato caso dell’«albergo con cappella» (basta che ci sia una cappella nell’immobile perché venga esentato). Di pura falsità si tratta, poiché entra in campo il principio della prevalenza: la legge richiede che ciascuna unità immobiliare sia utilizzata interamente per l’attività agevolata, altrimenti tutto l’immobile perde l’esenzione, luogo di culto compreso. Di conseguenza, altro che «la Chiesa non paga l’Ici»! Anche se, detto questo, va individuato – e lo facciamo con le parole del giurista Giuseppe Dalla Torre – il vero senso dell’esenzione: «Rappresenta in sostanza un’agevolazione volta ad assicurare alle fasce più deboli della società, che diversamente verrebbero ulteriormente marginalizzate, una serie di servizi altrimenti inesistenti o più costosi. Si tratta di un sistema vantaggioso sia per la cittadinanza, sia per lo Stato. Sotto il profilo strettamente economico, è interesse di quest’ultimo continuare a consentire agli enti non profit di farsi carico di questi servizi».
Dunque un’agevolazione che uno Stato laico ha tutto l’interesse a mantenere, poiché gli tornano indietro indiscutibili vantaggi anche di carattere economico. E questo per una supplenza che in molti casi raggiunge situazioni altrimenti invisibili. Penso alle mense che forniscono pasti caldi ai nuovi poveri, ma anche all’opera educativa e assistenziale esercitata in forme capillari. Naturalmente chi vede nella Chiesa solo una Spa continuerà a ripetere la cantilena del «privilegio», senza notare tutto il resto, che è il di più. Mentre da parte della Chiesa, oltre alla chiara puntualizzazione del cardinal Angelo Bagnasco («Si tratta di chiedersi se il mondo della solidarietà debba essere tassato al pari di quello del business»), la situazione di emergenza sul tema Ici sta portando a paginate di chiarezza su «Avvenire» ma anche su molti Settimanali diocesani che hanno fotografato, in patrimonio e cifre, la situazione della diocesi di riferimento. Ho sottomano, ad esempio, la «Difesa del Popolo» di Padova del 18 dicembre, con tre densissime pagine di nomi e numeri. Una curiosità: le cucine economiche popolari di Padova, dove operano suore e volontari, pagano 9.046 euro di Ici. La finalità non commerciale c’è, ma l’immobile non è di proprietà delle cucine, e tanto basta perché non possa godere dell’esenzione. Dunque, giustamente, paga, facendo doppiamente del bene alla società civile.
Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org