Lettere al direttore

24 Maggio 2010 | di

Lettera del mese



Reliquia o icona?


L’Icona non è una semplice immagine. Indica un «contatto vitale con il mistero rappresentato». Soprattutto, il termine Icona non interferisce con questioni scientifiche ed è rispettoso delle diverse opinioni, anche dei credenti.


«Caro direttore, la visita del Papa alla Sindone di Torino ha suscitato in me una certa perplessità. In riferimento al sacro Telo Benedetto XVI non ha parlato di Reliquia, come aveva fatto anni fa Giovanni Paolo II, e ha invece utilizzato la parola Icona. Questo significa, allora, che la Sindone non è autentica e può trattarsi di un falso? Ma perché la Chiesa sembra favorire l’equivoco e non si pronuncia con chiarezza, anche a beneficio di chi si reca in pellegrinaggio e porta in cuore la convinzione di incontrare il vero volto di Gesù?».

Lucia


Cara Lucia, devo dirti che con la tua domanda hai colto nel segno, sollevando una questione importante, forse quella centrale in riferimento alla Sindone. Va detto, innanzitutto, che il termine «autenticità» viene spesso usato in modo improprio, anche perché si tratta di un termine altamente equivoco. Autenticità può riferirsi al fatto di considerare o meno il Lino benedetto un dipinto: non sarebbe, secondo alcuni, un telo sul quale sono impresse le tracce e le impronte di un uomo massacrato di botte, incoronato di spine, flagellato e poi crocifisso. Finora, tutti i tentativi di dimostrare che la Sindone è un dipinto sono falliti.

Autenticità, in seconda battuta, sta a indicare che quel Lenzuolo risale all’epoca di Gesù. È la complessa questione della datazione del reperto, alla quale ha risposto un’indagine svolta nel 1978 con il Carbonio 14, che ne colloca la fattura tra il 1260 e il 1390. Fino a oggi è l’obiezione più forte e fondata, anche se molti nutrono seri dubbi sui protocolli seguiti in queste ricerche. Senza parlare delle molte contaminazioni (fuoco, acqua, esposizioni non protette…) a cui è stato sottoposto il Telo.

Ancora, autenticità dice – e questo vale per i più – identità tra la Sindone e il Lenzuolo funerario che ha avvolto il cadavere di Gesù nel breve tempo (dalle 30 alle 40 ore) tra la deposizione e la risurrezione.

Per quanto riguarda il primo significato di autenticità si può stare sicuri, mentre il secondo sembra esigere approfondimenti ulteriori ai quali guardare comunque con animo sereno; il terzo significato, una volta risolto in senso positivo il secondo, rientra ancora nella competenza scientifica. La fede può intuire che quello è il Lenzuolo di Gesù, ma non ha strumenti per dimostrarlo.

Ma veniamo alla terminologia, altra questione delicata. Dopo aver sostato pochi ma intensi minuti di fronte alla Sindone, il 2 maggio scorso Benedetto XVI ha tenuto una riflessione di grande densità spirituale e teologica, definendo la Sindone straordinaria Icona, Icona del sabato Santo e Icona scritta col sangue. Il fatto che non abbia parlato di Reliquia ha sollevato qualche perplessità, anche perché il 28 aprile 1989 Giovanni Paolo II, interpellato in proposito dal vaticanista Orazio Petrosillo durante un viaggio aereo verso il Madagascar, aveva affermato: «Reliquia lo è certamente. Se tanti lo pensano, non sono senza fondamento le loro convinzioni nel vedere in essa l’impronta del corpo di Cristo». Reliquia letteralmente significa «ciò che resta», e nel cattolicesimo indica il corpo di un santo o sue parti, oppure oggetti che sono stati in contatto con esso. C’è dunque un significato stretto-tecnico (quella persona o cosa precisa) e uno largo (in rapporto a quella persona o cosa): si pensi soltanto al fatto che nel Medioevo molte reliquie erano ottenute «per contatto», appunto, con l’originale. La Sindone potrebbe essere chiamata correttamente Reliquia anche per il rimando intenso all’evento della passione di Cristo, pur senza averne avvolto il cadavere. In ogni caso sia Giovanni Paolo II nel 1998 sia Benedetto XVI nell’ultima visita, quindi in una situazione del tutto ufficiale, hanno sempre usato il termine Icona. Tra l’altro correttissimo oltre che elevato: indica infatti un «contatto vitale con il mistero rappresentato», un segno che è presenza. E soprattutto un termine che non interferisce con questioni scientifiche ed è rispettoso delle diverse opinioni, anche dei credenti.


Lettere al direttore


Perché tante tragedie in famiglia?

«Sono turbata dalle sempre più frequenti storie coniugali finite in tragedia: dalla Sicilia alla cintura torinese si sono verificati casi di uxoricidio, dopo che la moglie aveva abbandonato il marito o minacciato di farlo. Rimango interdetta anche perché a volte questi episodi riguardano famiglie pienamente inserite nelle parrocchie e nella comunità civica. Che cosa bisognerebbe fare perché si eviti di arrivare a tanto?».

Lucia


Storie di separazioni sofferte e spesso la paura di perdere per sempre i propri figli portano – in casi, purtroppo, non isolati – a epiloghi violenti ed estremi, come lei segnala. Sono tanti i fattori che spingono a gesti di follia come questi. Alla base sta la fragilità delle relazioni: «Non c’è più tolleranza ­– lo dice anche Rosaria Elefante, avvocato matrimonialista –, ci si separa subito e per poco, anche perché ci si sposa per poco». Poi, nei casi estremi, come quelli che lei cita, spesso l’uomo non riesce a tollerare il trauma della separazione e preferisce distruggere l’ex partner. Un segno di squilibrio grave, spia di una solitudine profonda e dell’incapacità di mettersi in relazione non solo con il partner ma con le figure significative della propria esistenza: famiglia, amici, e anche membri della comunità sociale o parrocchiale in cui si vive. Storie così dolorose non possono avere commento adeguato, se non il silenzio e la preghiera. Mi limito solo ad aggiungere che un supporto psicologico, spirituale e anche giuridico più efficace potrebbe servire come prevenzione. Gli avvocati, per esempio, potrebbero tentare una conciliazione tra i coniugi, costringendo marito e moglie a guardarsi negli occhi. Anche all’interno della Chiesa ci sono movimenti di coppie che aiutano coniugi in difficoltà a ritrovarsi e a parlarsi di nuovo.

«Ci sono molti manuali dedicati alle crisi nella relazione e ai modi per uscire dalle crisi – scrive Anselm Grün, benedettino consigliere spirituale di molte coppie, in Fidati della tua forza (San Paolo) –. Spesso è necessario un po’ di tempo, fino a quando nella donna e nell’uomo non cresca qualcosa. È necessaria la fede nel nocciolo buono presente nell’altro. Ed è necessaria la disponibilità a ritirarsi in se stessi e a promuovere il proprio sviluppo. Allora è possibile una nuova reciprocità».


L’antidoto ai media tossici

«Non se ne può più di allarmi continui, malvagità e corruzione diffusi dai media. Scrivo a te perché il giornale che dirigi è un’isola felice, che dà spazio alla parte sana della nostra Italia. Provo un senso di rassegnazione di fronte a certi avvenimenti, e gratitudine per chi, senza alzare i toni, lotta contro questo stato di caduta verticale dei valori, ma soprattutto delle speranze».

Gregorio


A questo sfogo, condivisibile, rispondo domandando: il male è nel mondo o nei media? È marcia la società, o c’è una volontà esplicita di mostrare sempre e solo il lato oscuro? In definitiva, il male è dentro o fuori di noi? Benedetto XVI, l’8 dicembre scorso ha affermato: «Ogni giorno attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula». Il rischio dello straniamento è dietro l’angolo. Noi del «Messaggero», nel nostro piccolo, cerchiamo di lavorare in controtendenza. Questo non significa che la realtà non va raccontata, anche quando è cruda, ma che va sempre messa «alla prova» del Vangelo. Non esiste infatti notizia così malvagia da superare la «buona notizia» evangelica, che ci vuole figli della risurrezione e costruttori di pace. Anche davanti alla tv, ascoltando la radio, o leggendo – nel mio caso scrivendo – un giornale.


Non è un Paese per famiglie

«Siamo una giovane famiglia. Mio marito è operaio, io accudisco un anziano e ogni mese c’è la rata del mutuo da pagare. Abbiamo due bambini di sette e sei anni che, a giugno, concluse le scuole, saranno costretti a rimanere a casa da soli perché non abbiamo nonni che possano seguirli o soldi per i centri estivi. Caro padre, perdoni lo sfogo, ma anche per chi crede è davvero dura far figli e crescerli in una società che poco o nulla fa per le giovani famiglie».

Lettera firmata


Oggi l’Italia è uno degli Stati in cui le giovani famiglie contano meno dal punto di vista sociale, economico e politico. Il nostro è un Paese che preferisce difendere i privilegi e le rendite acquisiti piuttosto che investire sul proprio futuro. Un futuro che passa inequivocabilmente per le giovani generazioni, ma anche per le giovani famiglie, quelle nelle quali si mettono al mondo i figli e si comincia quell’opera educativa alla base di ogni progettualità. Certo, la recente crisi economica, che ha azzoppato larghe fasce di popolazione, non aiuta. Mancano i soldi: basti pensare alla scuola ormai quasi senza fondi, o alla spesa per la protezione sociale che, al netto delle pensioni, risulta pari al 10 per cento del Pil, il valore più basso in Europa. Potremmo andare avanti così e trovare molti altri esempi per descrivere le carenze di uno Stato che scommette poco sulle famiglie e ancor meno su quelle giovani.

Ritengo, però, che di questi tempi un atteggiamento di sola denuncia porti davvero a poco. È necessario dire ciò che non va, ma è altrettanto, se non più, necessario immaginarsi scenari futuri percorribili. È necessario trovare le strade per affezionarsi nuovamente a quella politica che, unica, può trovare gli strumenti per attivare nuove politiche familiari. È necessario, poi, vegliare sui politici e valutare chi, tra loro, è davvero disposto a mettersi in gioco perché i cammini futuri del nostro Paese passino attraverso la famiglia. È necessario, infine, me lo lasci dire, che le famiglie siano sempre più consapevoli del loro peso sociale e politico. Occorre che si mettano in rete, chiedendo a gran voce fondi, supporti e sostegni (economici ma non solo), soprattutto per poter svolgere al meglio il compito educativo loro affidato. Concludo formulando un consiglio in riferimento al suo problema specifico: ha provato a verificare se nella sua città esiste una banca del tempo? (ne parliamo nell’articolo alle pagine 16-19). Non risolverà il problema alla radice, ma forse potrà attivare una prima rete di solidarietà utile per risolvere l’imminente emergenza-estate. Auguri!


Ostensione esperienza indimenticabile

«È ormai passato qualche mese dal mio pellegrinaggio a Padova per rendere omaggio alle spoglie del Santo. È stata un’esperienza indimenticabile di cui rendo grazie a Dio, al grande Santo e a voi, cari frati. Porto ancora nel cuore l’immagine di quella folla silenziosa e composta, in lunghissima fila, che quietamente attendeva nel freddo dell’alba. Per similitudine ho pensato alle anime incamminate verso il Paradiso e alle splendide figure immerse nella luce dell’affresco che si trova nella Cappella del Santissimo Sacramento in Basilica. Mentre avanzi lentamente, vorresti portare con te tutti i tuoi cari. E allora ricordi quello e quell’altro ancora. Forse hai dimenticato qualcuno e allora subito preghi anche per lui e per tutti coloro che ti sfuggono… Poi, quando finalmente arrivi davanti al tuo Santo, ogni parola cessa. Non puoi che donargli il tuo silenzio fatto di amore e di lacrime. “Sant’Antonio ci sono anch’io. Ti voglio tanto bene”. Sono le uniche parole che riesci a dire con il cuore. Il giro attorno all’urna di vetro è breve, gli attimi passano veloci. Ma sai che Lui ti ha visto e ti benedice. Mentre ti allontani, ti giri un’ultima volta per trattenere ancora un’immagine e vedi due orbite scure che ti guardano benevole da un abisso di luce. Vorresti rimanere ma non ti resta che ringraziare per esserci stato».

Maria


Ho scelto la sua lettera, cara Maria, tra le tante che ci giungono sull’Ostensione perché è un racconto corale di quell’esperienza: chiunque sia stato in Basilica in quei giorni non potrà che riconoscersi nel suo modo di vivere l’attesa, la preghiera, la fede, l’ansia di ricordare tutti, la mitezza, la tenerezza, la poesia di quel momento unico. Grazie davvero per la sua testimonianza.



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017