L’intervista. Margherita Boniver
Da agosto 2012 ad agosto 2013 sono quasi 25 mila gli immigrati sbarcati in Italia, secondo i dati del ministero degli Interni. Quasi tutti in fuga da una vita indegna di questo nome. Una vita, soprattutto, priva della speranza in un futuro migliore, per lo meno a breve termine. Si può capire allora perché in tanti decidano di metterla a repentaglio affidandosi a scafisti senza scrupoli. Anche il rischio di morire è preferibile a una vita disperata. Troppo spesso ce lo dimentichiamo, mentre osserviamo con distacco in tv le immagini delle file di somali o eritrei o siriani o congolesi appena sbarcati e in attesa di finire in uno dei nostri Cie (Centri di identificazione ed esplusione, il nuovo triste nome attribuito ai Cpt, Centri di permanenza temporanei). Certo, i problemi ci sono, e anche tanti, nel cercare di dare accoglienza a tutti. E spesso a portarne il peso sono le classi sociali più deboli del nostro Paese. Insomma, se da un lato rischiamo l’indifferenza, dall’altro è in agguato la demagogia. All’indomani della tragedia di Lampedusa dello scorso 3 ottobre, nella quale sono morte circa quattrocento persone, abbiamo incontrato Margherita Boniver che di immigrazione si è occupata intensamente e a 360 gradi nel corso della sua lunga carriera politica.
Msa. La vicenda di Lampedusa ha drammaticamente riproposto la questione delle migliaia di migranti che ogni anno tentano di raggiungere le nostre coste. Da più parti è stata chiesta una revisione della legge Bossi-Fini. Quali sono, a suo parere, gli aspetti da rivedere?
Boniver. La tragedia di Lampedusa e i continui sbarchi sulle coste meridionali italiane nulla hanno a che fare con le leggi sull’immigrazione, che sono perfettibili, certo, ma che andrebbero modificate senza polemica politica e sempre in un’ottica di interesse nazionale. Tali norme non fermano gli esodi e non salvano le vite umane delle persone disperate che si affidano alle rotte del Mediterraneo del Sud. Tragedie come quella di Lampedusa avvengono perché, a monte, ci sono altre tragedie (nel Corno d’Africa o in genere nei Paesi della fascia sub-sahariana) di cui spesso poco si conosce.
La Bossi-Fini è una complessa normativa. Sicuramente vi sono aspetti che andrebbero rivisti e migliorati. La questione di fondo, però, è che tutte le leggi sull’immigrazione andrebbero modificate nel tempo in base alle necessità e al mutato quadro internazionale. Quest’ultimo è profondamente cambiato rispetto al 2002, quando la Bossi-Fini è stata approvata: per esempio, ci sono state le Primavere arabe che hanno destabilizzato molti Paesi come Tunisia ed Egitto, e che probabilmente incoraggeranno ulteriori esodi. Una perfetta legge sull’immigrazione, dunque, in realtà, non esiste: dovrebbe essere un work in progress (un «lavoro in corso», ndr), una legge continuamente rivista e ritoccata in base alle mutate esigenze, ma sempre, ripeto, in un’ottica di interesse nazionale.
Tra le iniziative più urgenti da più parti auspicate c’è l’istituzione dei cosiddetti «corridoi umanitari». Di che cosa si tratta?
Un corridoio umanitario è un complesso accordo, in genere bilaterale, che garantisce lo spostamento in condizioni di sicurezza di popolazioni a rischio o in difficoltà. Per esempio, io ne ho aperto uno, vent’anni fa, per portare in Italia profughi della ex Jugoslavia, durante le guerre balcaniche. Ricordo la trattativa serrata con Miloševic (all’epoca presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia, ndr) durata quattro ore, durissima. Però poi, alla fine, siamo riusciti a imbarcare e a far giungere in Italia duemila tra bambini, donne e anziani.
Lei ha visitato personalmente centinaia di campi profughi nel mondo. C’è stata qualche vicenda umana che l’ha colpita in modo particolare?
Sono davvero tante le vicende umane che mi hanno toccato. Ricordo, per esempio, quando, nel 2004, mi recai a Nyala, nel Sud Darfur, la parte occidentale del Sudan. Lì da pochissimi giorni era stata allestita, da un’agenzia dell’Onu, una tendopoli verso la quale affluivano migliaia di poveri contadini in fuga dalla guerra e che erano stati sottoposti alle più orribili repressioni. In quella tendopoli ho incontrato molte donne e bambine scampate per miracolo a queste terribili vicende, che poi si sarebbero protratte ancora a lungo, e tutte erano state stuprate. In mezzo al tanto dolore, la costante del fattore femminile: le sopravvissute, in qualsiasi zona del mondo, sono sempre vittime delle più feroci violenze sessuali.
A chi, tra gli italiani, si sente «assediato» dagli immigrati, che cosa risponderebbe?
Non è facile. È indubbio che ci sono situazioni in cui un numero eccessivo soprattutto di immigrati irregolari o di persone che vengono nel nostro Paese senza titolo, senza lavoro e che magari palesemente non contribuiscono a una convivenza o a una integrazione pacifica, crea un sentimento di rifiuto negli italiani, e se ne possono capire perfettamente le ragioni. Si tratta, però, di un sentimento che appartiene anche a molti cittadini di altre nazioni, soprattutto là dove l’immigrazione non è regolata o governata nel migliore dei modi. C’è stato di recente il caso eclatante della Svezia, da tutti considerata patria del multiculturalismo e dell’integrazione: in alcuni sobborghi di Stoccolma, quasi tutti abitati da immigrati di fresco arrivo, si sono verificate violenze e devastazioni. Dinanzi a queste situazioni devono entrare in gioco governi capaci di mettere in atto tutta una serie di buone pratiche affinché l’immigrazione avvenga nel modo più ordinato possibile, l’integrazione sia l’obiettivo principale – come ripete spesso anche la ministra Cécile Kyenge – e si garantisca un giusto equilibrio tra popolazione di migranti e popolazione autoctona, anche se quest’ultimo aspetto è una questione che complica ulteriormente le cose.
Molti immigrati irregolari avrebbero diritto all’asilo politico. Purtroppo, in base al regolamento di Dublino, i profughi possono chiedere asilo una sola volta e in un solo Paese. Cosa si può fare?
L’Italia e la Grecia, proprio nei mesi precedenti alla tragedia di Lampedusa erano giunte in sede di verifica a livello europeo chiedendo una modifica del regolamento di Dublino 2, il quale sostiene che i profughi e i richiedenti asilo possano fare domanda soltanto nel Paese d’arrivo. Purtroppo l’appello non è stato accolto. Al momento possiamo al massimo immaginare una migliore redistribuzione nei territori dell’Unione europea, in tutti i ventisette Paesi, di queste migliaia e migliaia di persone che fuggono da situazioni di crisi e quindi nel pieno diritto di ottenere protezione internazionale. Ma, ovviamente, questo può avvenire solo su base volontaria.
La Convenzione di Ginevra del 1951 sancisce il divieto di espellere o respingere «in qualsiasi modo un rifugiato verso confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate». Eppure, anche in anni recenti – sto pensando, per esempio, al periodo successivo alla firma del trattato di amicizia con la Libia –, lo Stato italiano ha attuato una prassi di respingimenti. Com’è stato possibile?
Tali respingimenti, che hanno avuto luogo in pochissime occasioni nel 2009, sono stati poi fermati da una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. È accaduto che, in base al trattato di amicizia e di cooperazione italo-libico, le barche dei migranti intercettate venissero riaccompagnate in acque internazionali verso i porti di partenza libici, ovviamente con il consenso della Libia stessa. Ora tutto ciò non avviene più. Il refoulement, come viene chiamato tecnicamente, è una pratica che non può continuare. Però, anche in questo caso bisognerebbe cercare di coniugare il diritto di ogni Stato di avere le frontiere sicure con i diritti dei migranti che giungono in condizioni disumane.
Gli operatori dei media possono contribuire a creare una cultura dell’accoglienza?
Credo di sì, cercando di fare un’informazione meno frettolosa e parlando di immigrati non solo quando ci sono emergenze o si verificano dei fatti negativi. Troppo poco si parla della maggioranza degli immigrati, che sono una presenza laboriosa, di prestigio, spessissimo costituita da giovani laureati e colti. Mi piacerebbe, poi, che nascesse anche una rete televisiva nazionale multiculturale per rappresentare in Italia quei quasi 5 milioni di concittadini che provengono da altri Paesi. Dovrebbe essere un obiettivo di questo governo.
Il ministro per l’integrazione, Cécile Kyenge, è costantemente sotto attacco. Lei ha mai avuto attacchi personali a motivo del suo impegno a favore dei migranti?
No, mai. Sono stata fatta oggetto di feroci polemiche politiche, ma non le ritengo attacchi degni di nota anche perché in genere sono state dettate da rozzezza culturale. Trovo invece incredibile che un ministro della Repubblica come Cécile Kyenge venga sottoposto a questo continuo stillicidio di insulti e riferimenti razzisti di livello davvero infimo. E mi ha particolarmente colpito che un esponente delle istituzioni come il vicepresidente del Senato Calderoli non abbia sentito la necessità di dimettersi dopo l’incredibile battutaccia espressa sulla ministra, battuta che, in verità, in internet gira costantemente associata a Obama. Anche il presidente della più grande democrazia del mondo è soggetto a insulti del conio più miserabile.
Il suo pluriennale impegno sul campo l’ha portata spesso a stretto contatto con il dolore. Come si fa a condividere la sofferenza senza restarne schiacciati?
Non è facile, a volte si rischia di perdere la speranza. Ricordo per esempio uno dei posti più spaventosi che abbia mai visitato: la Repubblica democratica del Congo. Ci sono stata due anni fa, nella zona dei grandi laghi, con una missione umanitaria del ministero degli Affari esteri. Stiamo parlando di un’area dove, negli ultimi dieci anni circa, sono stati massacrati 5 milioni di esseri umani. Era una situazione così disperante e disperata… Come fermare tanta violenza? Ma voglio anche testimoniare un fatto che mi ha sempre colpito: in tutte le aree di crisi del mondo che ho visitato, ho visto impegnati religiosi e religiose che operano in condizioni impossibili per alleviare le sofferenze e restituire futuro a tanta gente. Anche loro si meriterebbero il Nobel per la pace, non solo Lampedusa.
La scheda
Boniver in breve
Margherita Boniver nasce a Roma nel 1938. Figlia di diplomatici, fino al 1962 vive all’estero: Washington, Bucarest, Londra. Nel 1973 fonda la sezione italiana di Amnesty International, di cui è presidente fino al 1980. Nel 1991 è a capo del ministero per gli Italiani all’estero nel governo Andreotti e, nel 1992, è ministro del Turismo con Giuliano Amato. Nel 1995, il segretario dell’Onu Boutros-Ghali la nomina suo consulente nel Comitato preparatorio del vertice mondiale sulla povertà e l’emarginazione di Copenhaghen. Nel 2007 collabora alla liberazione del missionario padre Giancarlo Bossi, rapito nelle Filippine.
Più recentemente, è inviata speciale per le emergenze umanitarie del ministro degli Esteri Franco Frattini e inviata speciale del ministro degli Esteri Giulio Terzi per le emergenze umanitarie e le conseguenze dei cambiamenti climatici nei Paesi del Sahel e del Corno D’Africa. Nel 2012 compie numerose missioni nei Paesi sahariani per la liberazione della cooperante italiana Rossella Urru, rapita e tenuta prigioniera in Mali e rilasciata nel luglio dello stesso anno.