L’ospedale dei poveri

Un viaggio in Burkina Faso ha consentito a fra Giancarlo Zamengo, direttore generale del «Messaggero di sant'Antonio», di raccontarci dal vivo il progetto che insieme realizzeremo in onore del Santo: un moderno pronto soccorso.
20 Maggio 2014 | di

Devo ammetterlo, sono in apprensione. Non è la prima volta che vado in Africa, ma questa volta è diverso. Nei giorni che mi tratterrò in Burkina Faso sarò gli occhi, la mente e il cuore di tutti gli amici del Santo che, attraverso la Caritas Antoniana, vogliono essere attori di un grande riscatto. Da un certo punto di vista gioco in casa. Il progetto sarà a Sabou (diocesi di Koudougou), nella giovane missione dei nostri frati, nella regione del Centre Ouest, a un centinaio di chilometri dalla capitale Ouagadougou. Si tratta di un pronto soccorso in piena zona rurale, l’ultima evoluzione di un centro medico, il Massimiliano Kolbe, finanziato da Caritas Antoniana circa nove anni fa, in un luogo in cui non c’era alcun presidio sanitario. Sarà un grande sollievo per la gente, mi hanno preannunciato i confratelli.

L’aeroporto della capitale mi sorprende. Tecnologico e funzionale. L’Africa, però, ti dà il benvenuto giusto fuori dalle porte scorrevoli, dove finisce l’aria condizionata e ti avviluppa una vampata calda e secca, piena di sabbia del vicino deserto del Sahel. Con me c’è Giovanni Pinton, il fotografo. Ad accoglierci, fra Tomasz, il responsabile della missione francescana in Burkina Faso. Un frate polacco di 37 anni, magro e asciutto nella parola e nel fisico. Alle nostre spalle, mondi e vite diverse, eppure basta un abbraccio per sentirsi a casa. Nel Convento Sant’Antonio di Padova di Ouagadougou – casa di formazione dei frati, dove fra Tomasz vive con altri tre confratelli – per cena c’è un miscuglio di cous-cous e ketchup. Strano ma vero: il sapore è gradevole. Mescolarsi, contaminarsi, condividere diventano da subito, fin dalle piccole cose, le parole chiave di questo viaggio. La missione stessa dei frati in Burkina Faso è un «miscuglio» di polacchi e abruzzesi. Ma la sintesi è gradevole: efficienza nordica e passione mediterranea. C’è una luna splendida stasera. Il silenzio è interrotto da ragli d’asino e cani che abbaiano. Non riesco a prender sonno. Intorno alle 5 un gallo inizia la sua giornata. Lo segue il richiamo del muezzin che invita i fedeli musulmani alla preghiera. Poco dopo fra Marek, il guardiano, anche lui un giovane polacco, è pronto con l’auto per portarci a Sabou. Ci siamo.
 
La strada della morte
La strada che collega la capitale alla missione è anche l’unica arteria che collega il Paese con la Costa d’Avorio. Ottanta chilometri col fiato sospeso. Carcasse di mezzi puntellano il percorso sui due lati. La strada è intasata di pulmini stipati di gente e camion sgangherati, carichi all’inverosimile, con sacchi che sporgono di molto oltre il limite del tetto e che sembrano stare insieme grazie a un’eccezione delle leggi della fisica. Corrono all’impazzata, spesso senza fanali, e sembrano risucchiare nel vuoto d’aria biciclette e motorini. Marek spiega che non è solo un’impressione. Questa è la strada della morte. Qualche giorno prima un pulmino è stato travolto da un camion. Dieci persone sono morte: i corpi sono rimasti ai bordi della strada, sotto il sole, per ore. Accade così quasi tutti i giorni. Nessuna autoambulanza, nessun soccorso. Vita e morte si toccano. Semplicemente accadono. Per chi è abituato alle sicurezze occidentali è un pugno nello stomaco.

Più ti avvicini a Sabou, più la terra diventa secca e la vegetazione rada. È zona agricola, ma questo è il periodo in cui non piove. Marek spiega che da due anni la siccità ha falciato i raccolti, ha reso ancora più miseri i poveri contadini della zona. Quando soffia il vento dal deserto tutto sparisce in una nuvola di sabbia: il cielo, il sole, la vita.

Al convento francescano di Sabou ci accoglie fra Lorenzo, 47 anni, meno «secco» del fratello polacco, sia nella corporatura che nella parola. L’inconfondibile cadenza abruzzese rivela un’irresistibile verve mediterranea, contemperata da una severa pipa arcuata, che lui ama fumare nei momenti di relax. Il solito mix strano, nato in terra d’Africa. Sarà lui qui la nostra guida. Fra Lorenzo gesticola mentre descrive il perimetro della missione: 50 chilometri da Nord a Sud, 60 da Est a Ovest, 140 mila abitanti stimati, di cui solo il 20 per cento cattolici.

Quattro frati, due abruzzesi e due polacchi, per una parrocchia, la Saint Luc, che comprende undici villaggi e il centro medico San Massimiliano Kolbe, l’unico presidio sanitario nel raggio di 80 chilometri, finanziato da Caritas Antoniana nel 2005 e ampliato nel tempo da altre donazioni. «C’è qualche dispensario in giro – continua Lorenzo –, ma te li raccomando! Se ti capita qualcosa qui, il primo ospedale che può dirsi tale è a 100 chilometri ed è a pagamento. Fai in tempo a morire». Il Centro sanitario San Massimiliano Kolbe ha un reparto di degenza di 24 posti letto, un laboratorio di analisi, un servizio di medicina generale e uno di consulenza per malati di Aids e tubercolosi, uno studio dentistico e una farmacia che procura le medicine a un decimo del costo di mercato. Accanto un Cren, cioè un servizio per la cura dei bambini denutriti, ed è in via di apertura un reparto di maternità, donato dalla Caritas austriaca. Ci lavorano trentatré persone, tutti burkinabè, di cui dieci infermieri e un solo medico fisso. Al Centro opera anche un certo numero di volontari, per lo più medici occidentali, che vi passano un periodo. Sembra poco ma è un lusso, perché in Burkina Faso c’è un medico ogni 40 mila abitanti e un infermiere ogni 30 mila.
 
Un ospedale nella sabbia
Il Massimiliano Kolbe si trova a un paio di chilometri dal convento, proprio lungo la strada della morte che abbiamo percorso qualche ora prima. L’insegna mangiata dal vento del deserto deve sembrare agli incidentati, che hanno la fortuna di arrivare vivi fin qui, una specie di miraggio. Entro nelle strutture. Mi colpisce la semplicità decorosa. Gli ambienti sono essenziali e puliti. Colgo in essi l’orma lasciata dai frati e dai volontari che hanno operato tra i poveri. Fra Lorenzo spiega che prima dell’apertura del centro sanitario non era possibile curare neppure un attacco di malaria, che in questa zona è endemica.

La lista delle emergenze è una galleria degli orrori: infezioni respiratorie acute, anemie, meningiti, infezioni intestinali, parti complicati, a cui si aggiungono «le specialità» autoctone come i morsi dei serpenti. «Abbiamo allestito un piccolo pronto soccorso – continua Lorenzo –, ma è insufficiente rispetto alle emergenze che dobbiamo fronteggiare. Non possiamo fare una radiografia o un’ecografia, non abbiamo una sala operatoria per gli interventi d’urgenza. Un pronto soccorso attrezzato ci permetterebbe di salvare molte vite e di evitare a questa povera gente lunghi e costosi viaggi per avere una diagnosi corretta. Molti di loro non hanno neppure una bicicletta. Come ci arrivano nella capitale per una lastra?».

Emmanuel ha 4 anni e un esofago corroso dall’acido. Al tempo dell’incidente viveva con i suoi in Costa D’Avorio. Vedendo che faceva fatica ad alimentarsi, i genitori lo avevano portato in un ospedale locale, ma nessuno era riuscito a capire ciò che stava succedendo. Finiti i soldi, l’ospedale l’aveva dimesso. Pur di salvarlo, i suoi l’hanno portato al Centro Massimiliano Kolbe e sono andati a vivere in un villaggio qui vicino. Grazie agli esami del nostro laboratorio è stato possibile fare una diagnosi. Ora è stato operato e se la caverà. Ma quanti altri muoiono? Noi siamo frati francescani e non abbiamo un carisma sanitario come i Camilliani, che curano i malati in tutto il mondo, eppure mi rendo conto che qui un ospedale è l’opera di carità più grande. «In fondo – chiosa Lorenzo, senza mai perdere il buon umore – noi francescani siamo come i marines, ci buttiamo a capofitto dove ci sono gli ultimi. Guardiamo ai bisogni e… via! apriamo nuove opere».

È fra Michel a raccontarmi i primi passi di questa missione. Anche lui è un mix variopinto di esperienze e culture. 53 anni, togolese, era emigrato a Duisburg in Germania per studiare da impiantista, quando ha incontrato san Francesco nei panni di una comunità di frati polacchi. Un incontro a cui sono seguiti dieci anni di teologia in Polonia. Oggi, da missionario in Burkina Faso, è infermiere, carpentiere e maestro dei postulanti. È l’africano del gruppo dei frati e uno dei fondatori della missione, insieme con fra Giacomo e fra Massimiliano. «Fin dall’inizio – ricorda Michel – i bambini venivano a curarsi le piaghe da noi. Qui anche una piccola ferita può facilmente degenerare a causa del clima. Così avevamo allestito un’infermeria di fortuna nel nostro garage: lavavamo le bende e le riposizionavamo. I capi tribù ci avevano chiesto esplicitamente di fare un centro medico: “Se prima non stai bene – ci avevano spiegato – come puoi fare qualsiasi altra cosa?”». Ma è stato un fatto particolare a far precipitare gli eventi: «In quel periodo curavamo anche Omar, un bambino di pochi mesi. La mamma era morta e lui era seguito dalla nonna. L’anziana non aveva il denaro per il latte artificiale e la malnutrizione aveva provocato al piccolo una profonda piaga sulla schiena. Nonostante i nostri sforzi, il bambino deperiva. Abbiamo cercato i soldi per portarlo in ospedale ma, proprio il giorno in cui doveva partire, Omar è morto. È stato un duro colpo per noi. In quel momento fra Massimiliano ha deciso che i soldi per Omar dovevano servire a comprare la prima pietra del Centro medico per i poveri. Così è partita la nostra avventura».

Un’avventura di cui ora vogliamo scrivere un nuovo capitolo, insieme con Caritas Antoniana e tutti gli amici di sant’Antonio: un pronto soccorso con le attrezzature di diagnostica e la sala operatoria. L’ultimo giorno della mia permanenza, con i frati e il personale del centro sanitario mi reco sul luogo dove verrà costruito il nostro progetto. Arbusti e polvere ricoprono il terreno. Ci prendiamo per mano per circoscrivere la facciata del nuovo padiglione, mentre Giovanni ci fa l’ultima foto di gruppo.

Alla sera con i confratelli ci fermiamo a riflettere insieme. «Qui abbiamo tante sfide – afferma Tomasz – ma la più grande di tutte è la capacità di curare l’uomo nella sua interezza. Solo se si tocca l’anima e il corpo la conversione è profonda». Un’altra sfida, gli fa eco Lorenzo, «è la capacità di incontrarci, non solo nella comunità dei frati, dove siamo polacchi e abruzzesi, ma anche con le altre religioni, i musulmani, gli animisti, in un momento storico in cui il conflitto è la regola. I burkinabè ci chiamano “nazarè”, che significa “uomini bianchi”, ma è un termine che deriva dal nome arabizzato di “Gesù il Nazareno”. Un nome che è la nostra sfida più difficile. Essere uomini bianchi in questo angolo del Pianeta per noi significa calcare giorno per giorno le orme di Gesù».
 

IL PROGETTO IN BREVE

Costruzione di un’ala di pronto soccorso:
accoglienza; sala servizio radiologia ed ecografia; reparto chirurgia d’urgenza.

Altri costi:
acquisto apparecchiature per radiologia ed ecografia;
formazione del personale specializzato.

Totale: euro 360.000
 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017