Meglio la cura o la qualità di vita?
Uno degli esami più comuni nei check up degli uomini di mezza età ha ricevuto una solenne bocciatura. Non è la prima volta che gli esperti mettono in guardia contro la diffusa abitudine di verificare il dosaggio del Psa (Prostate-specific antigen) nel sangue di tutti gli ultracinquantenni. Il test è utile quando si sospetta la malattia e, una volta diagnosticata, se ne voglia seguire l'evoluzione. Risulta invece inappropriato per la prevenzione. Lo ha ribadito, sul New England Journal of Medicine, un gruppo di ricercatori che ne hanno riesaminato la capacità di screening, di individuare, cioè, i soggetti a maggior rischio. Le loro conclusioni sono più che deludenti: utilizzando come valore soglia un Psa che supera i 4,1 nanogrammi per millilitro, più dell'80 per cento degli uomini con meno di 60 anni, che effettivamente hanno il tumore, vengono falsamente rassicurati. Tra gli ultrasessantenni le cose vanno un po' meglio: alle maglie dell'esame sfugge solo - si fa per dire - il 65 per cento dei tumori.
Dal punto di vista statistico, per migliorare l'efficacia del test, la soluzione non è difficile: basta far scattare il campanello di allarme a un valore. Ma questa conclusione ha provocato una levata di scudi.
È vero, infatti, che il cancro alla prostata è la seconda causa di morte per cancro negli Stati Uniti e che il numero dei casi, con l'invecchiamento della popolazione, aumenterà . Ma quelli che convivono con un cancro alla prostata senza saperlo sono molto più di quelli che ne soccombono.
I rischi della diagnosi precoce
Gli studi effettuati sulle autopsie parlano chiaro - sostiene Stefano Ciatto, responsabile del Centro per lo studio e la prevenzione oncologica di Firenze -. Quasi un uomo su tre, oltre i 50 anni, ospita un tumore alla prostata, ma solo uno su dieci svilupperà la malattia nel corso della sua vita. Tutti gli altri, con una diagnosi precoce, faranno un pessimo affare: il riscontro di un Psa elevato spinge alla biopsia, esame invasivo e di per sé non privo di rischi. A tale indagine, peraltro, possono facilmente sfuggire le formazioni più piccole, con necessità , quindi, di ripeterla a distanza di tempo. Una volta che la biopsia svela la presenza di un tumore, l'intervento si impone. E l'asportazione della prostata, se potrà allungare la vita alla minoranza destinata ad ammalarsi, esporrà anche tutti quelli che avrebbero potuto farne a meno ai rischi operatori e a effetti collaterali, come impotenza e incontinenza, che incidono drasticamente sulla qualità di vita.
Un altro studio ha messo a confronto due gruppi a cui era stato diagnosticato un tumore localizzato: dopo otto anni dalla diagnosi, il tasso di mortalità nel gruppo non trattato era solo del 13 per cento ma nell'altro, passato sotto il bisturi, si erano operati diciassette uomini per salvarne uno. Nella valutazione dei risultati si dovrebbe tenere conto anche della qualità di vita degli altri sedici, in questi otto anni.
Il guaio è che non è possibile, con le conoscenze attuali, distinguere tra i tumori intenzionati a sonnecchiare per i successivi vent'anni e quelli pronti a sferrare il loro attacco: è questa quindi la direzione verso cui i ricercatoridovrebbero concentrare i loro sforzi.