Natale nei cinque sensi
«Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X, 27,38).
Queste parole di sant’Agostino d’Ippona ben rendono il significato di quel coinvolgimento sensoriale che, in quanto credenti, tutti sperimentiamo nel nostro rapporto con il divino. Un’esperienza che trova nel Natale, memoria della venuta tra noi di Gesù, figlio di Dio, il suo vertice. Perché la nostra fede è fede nel Dio fatto uomo, un Dio che ci interpella e si mostra a noi, anche attraverso l’esperienza dei sensi.
Nelle pagine che seguono, noti scrittori e giornalisti hanno accettato di narrarci il «loro» Natale, ciascuno attraverso la lente di un senso corporeo specifico, raccontando vicende reali, ricordi legati all’infanzia, oppure storie fantastiche.
Ci auguriamo che ciascuno di questi racconti aiuti i nostri lettori a soffermarsi, anche solo per un attimo, sulla bellezza di quel Dono che il Padre ci ha elargito. Perché se la fede ci interpella, è anche grazie al fatto che essa parla il linguaggio di una bellezza che, in tutte le sue forme, colpisce i nostri sensi.
Sabina Fadel
Olfatto
Profumo d’infanzia
di Marina Corradi
Erano messaggeri che riconoscevo prima con i sensi che con il cuore; ordinato corteo di orme note, e ogni anno uguali.
Si era verso la fine di novembre. Le giornate grigie e piovose si facevano sempre più brevi. Poi una mattina, nell’alba ancora incerta, appena fuori da casa ti trovavi dentro a un muro bianco, impalpabile, ma così fitto che davanti a te sembrava non esistere più niente. L’aria aveva un odore impercettibile, acre, di polvere, di gas di ciminiere spinti in basso dalla cappa candida che esalava dalle rogge, nella campagna attorno a Milano. Ricordo che mi piaceva buttarmici, in quel mare bianco, come in un incantesimo, e annusarne i vapori.
Il primo odore dell’Avvento era nella nebbia, una nebbia che ora a Milano non c’è più, densa di carbone e di fumi; con dentro però a tratti un’eco più antica, di zolle nere, di stalla, che non apparteneva alla mia memoria, e però mi commuoveva. La nebbia, il sottile inafferrabile fiato della nebbia era per me il primo respiro del Natale. Serrati nei cappotti e nelle sciarpe, i milanesi camminavano a capo chino, con aria ostinata, in quelle cupe giornate che precipitavano verso il vertice del buio del solstizio d’inverno. Noi si andava in fretta, tirati dalla mano della mamma. Fuori da scuola il sabato arrivava un carrettino da cui si alzava un altro fumo. Caldo, e dolce, che ci faceva sussultare: le caldarroste, le prime, da sbucciare scottandosi le dita., da mangiare in fretta prima che te le mangiassero i compagni.
Poi un giorno in classe, all’ora dell’intervallo, dal banco di qualcuna di noi si spandeva un aroma solare, mediterraneo, di agrumi. I primi mandarini!, esclamavamo, e ci affollavamo a farcene regalare uno spicchio. Sui caloriferi mettevamo le bucce, e tutta l’aula – oltre le finestre il cielo di dicembre era color dell’acciaio – odorava di giardino del Sud.
Il profumo della nebbia, delle caldarroste, dei mandarini erano per me i segnali certi del venirci incontro veloce, nelle giornate sempre più effimere e buie, del Natale. Erano messaggeri che riconoscevo prima con i sensi che con il cuore; ordinato corteo di orme note, e ogni anno uguali.
Poi, l’imminenza della Vigilia in casa si allargava in cucina, dove già il 24 mattina si respirava l’aroma del rosmarino e dell’arrosto per il ripieno dei tortelli; un rosolare lento e sapiente di cipolla e un’ombra di noce moscata colmavano la stanza, caldissima per via del forno acceso, mentre i vetri delle finestre sulla città illuminata si appannavano. La sera della Vigilia poi quel soffio di odore di cera bollente in casa, dalle candele disposte sulla tavola che mia madre, paurosa del fuoco, ci ordinava subito di spegnere.
E infine il cuore della notte buia, il vertice misterioso e profondo del Natale fioriva nell’effluvio dell’incenso che si alzava bianco dai bracieri nella chiesa colma, mentre il coro cantava Venite adoremus. Ma era tardi, e sulle ginocchia di mia madre il sonno ormai mi travolgeva. Già dormivo, e ancora respiravo quell’aroma d’incenso, il dono dei Magi in cammino verso la grotta. Dormivo, ma dall’olfatto, dritta al cuore, arrivava la gioia e la certezza: era arrivato anche quell’anno, Natale.
Vista
Destinatario sconosciuto
di Alessandro D’Avenia
Tutto sembra così simile a quella lettera in quella notte. Tutto è così consueto e nuovo in quella notte. Come un «ti amo» pronunciato all’infinito, ma sempre diverso.
Stefano Occhipinti è un postino che fa le sue consegne in bicicletta, anche quando nevica. E in questo Natale di crisi la neve si è accanita contro le strade della città, quasi potesse lavarle definitivamente. Ma si sa che la città degli uomini è troppo polverosa per essere lavata dalla neve. Il 24 dicembre è l’ultima giornata di lavoro dell’anno. Stefano solca la neve lentamente e sul suo volto c’è la stanchezza buona di un lavoro compiuto. Stefano ha imparato da suo padre che nella vita non è importante la parte, ma la recitazione. Che tu sia Re, Buffone o Postino, quel che conta è che tu sia un bravo Re, Buffone o Postino. Per lui essere un buon postino è portare le lettere al destinatario, anche quando ne è rimasta solo una e si è fatto tardi e si potrebbe rimandare al giorno dopo.
E in fondo al sacco ne è rimasta una.
Stefano è rimasto solo con la neve. La gente ha già acceso le luci colorate della vigilia e le facciate dei palazzi sembrano aver perso la loro ordinaria e ripetitiva tristezza.
Legge sulla busta: non c’è l’indirizzo. C’è il francobollo e c’è una lettera da un foglio a giudicare dal peso della busta, conosce bene il suo mestiere, le sue dita sanno determinare il contenuto di ogni busta dal solo peso. Ma purtroppo la busta è bianca come la neve che, nuova, si poggia sulla vecchia.
Stefano è un postino a fine giornata, il 24 dicembre. La neve continua a cadere e lo trasforma in un fantasma nel buio. Ha una busta senza destinatario. Il suo turno è finito. Si avvicina ad un cestino per buttare la lettera. E se fosse una lettera importante? Se ne dipende qualcosa di vitale, in quel Natale?
La apre. Spiega il foglio e legge:
...ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo,
ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo...
Si ferma perché quella parola è scritta sul fronte e sul retro di quel foglio centinaia di volte e assomiglia ad una poesia, dal momento che gli a capo non sono regolari. Guarda i fiocchi di neve, che – si sa – sembrano tutti uguali, ma a guardare bene si scopre che non uno è uguale all’altro, perché ciascuno dispone i suoi cristalli in modo perfettamente geometrico, ma sempre nuovo e diverso. Un caos ordinato, o un ordine caotico?
Stefano riprende a leggere. Anche se c’è scritta una sola cosa, ogni «ti amo» ha una grafia leggermente diversa, ora una «t» è più lunga, ora una «o» più arrotondata, ora una «a» più schiacciata, ora una «i» più slanciata. Come se ogni «ti amo», apparentemente uguale all’altro, fosse unico e nuovo a saperlo scrivere e a saperlo leggere come si deve. Ma per vedere certe cose bisogna averci gli occhi aperti. Spalancati. E questo Stefano lo sa, perché se c’è una cosa che il suo mestiere gli ha insegnato è che l’essenziale è leggere bene nome e cognome e indirizzo su una busta.
Dopo l’ultimo «ti amo», non c’è scritto più nulla. Follie da innamorati. Neanche una firma. Anzi al posto della firma, in basso a destra galleggiava un altro «ti amo». Quasi fosse quella la firma, il nome e il cognome del mittente.
Stefano alza gli occhi dal foglio e li costringe a ripercorrere al contrario la caduta dei fiocchi come chi cerca la sorgente di un fiume. Si perdono, fiocchi e occhi, nel cielo buio e compatto della vigilia, come se si potesse spaccare da un momento all’altro. Tutto sembra così simile a quella lettera in quella notte. Tutto è così calmo in quella notte. Tutto è così consueto e nuovo in quella notte. Come un «ti amo» pronunciato all’infinito, ma sempre diverso. Basta guardare la neve cadere dal cielo nelle proprie mani. L’essenziale è visibile agli occhi.
Tatto
Lettera ai non fratelli
di Erri De Luca
Noi siamo gli scartati, i senza festa. Succede ai marinai, a chi è di turno, a chi non ha nessuno, non solamente a noi che passeggiamo un’ora al giorno in un cortile con una graticola al soffitto.
Faccio finta che sono nato in Cina, in Algeria, così non penso che oggi è Natale. Per un cinese, un mussulmano è un giorno qualunque dell’anno e loro messi insieme fanno maggioranza della terra. Così posso dimenticare che appartengo a una minoranza religiosa che festeggia la nascita del suo messia.
A casa i figli ricevono regali e scartano pacchetti. Di telefonare non se ne parla. Oppure sì, se ne parla tra noi, come di un oggetto dell’aldilà.
Il telefono l’hanno già inventato, dice uno di noi che guarda il soffitto, steso sulla branda della cella di sei metri quadrati dove siamo in sei, per buona sorte magri.
Oggi Natale è un compleanno approssimato, incerto: capita a molti di non conoscere la data di nascita e farsene dare una qualunque. Oggi è il Natale di uno che ha pagato il suo diritto di parola con la propria vita. Fu ucciso per reato di opinione, una faccenda di molti contro uno. C’era a suo tempo un gran bazar di altari e di divinità. Lui ne voleva uno solo, non accanto né aldisopra, lui ne voleva uno senza gli altri.
Non scagliò pietre, frecce, non si azzuffò né sparse sangue altrui per la sua idea. Non era un pacifista né un pacificato, guardava dritto in faccia il male che se ne andava a spasso per il mondo. Lo vedeva arrogante ma fragile, bisognoso di offendere per poter esistere. Chi non si faceva offendere dal male, lo negava. A uno schiaffo in faccia rispondeva con l’altra metà del viso: così rendeva il male ridicolo e vigliacco. Il male alle prese con lui annaspava a vuoto.
Credeva in un termine dei conti, al fine corsa del tempo assegnato. Non temeva nessuno, non poteva scalfirlo un uomo, un re, un giudice di parte con patibolo pronto. Oggi è il suo compleanno un po’ inventato, al quale ci siamo affezionati. Un giorno vale l’altro, comunque era d’inverno, in Medio Oriente.
Insisteva a dichiararsi uguale: figlio di Adàm era il suo biglietto da visita, cioè fratello di chiunque al mondo. Fu un sovversivo mite che raccoglieva in strada la sua schiera. I più fidati li trovò su un lago, raccoglitori di pane quotidiano con le reti.
Dava sollievo ai guasti di natura, ciecati, storpi, aggrediti da lebbra e altre rogne: li aggiustava. A volte basta una parola buona detta da vicino. Lo sappiamo noi, cinesi di stasera, mussulmani di un giorno, rinnegati per dimenticare che è Natale. Del resto anche qui dentro le altre fedi sono maggioranza, rinchiuse insieme a noi dentro i corridoi chiamati «bracci». Qui ci sono le braccia condannate alla pena di far niente, con le mani in tasca.
È Natale, fatene buon uso voi di fuori. Per noi è una casella da sbarrare, nel calendario che svuota i nostri giorni al gabinetto. Noi vi assolviamo dall’ingiuria di esserci fratelli. Non date retta all’uomo che state festeggiando. Noi siamo gli scartati, i senza festa. Succede ai marinai, a chi è di turno, a chi non ha nessuno, non solamente a noi che passeggiamo un’ora al giorno in un cortile con una graticola al soffitto.
Non ci facciamo caso se nessuno viene al parlatorio, al confine col vetro divisorio. Anche senza di quello, la distanza tra voi di fuori e noi è un callo che ci ricopre il corpo intero. Per resistere qui, vi dobbiamo ignorare. La televisione che racconta la vostra vita è per noi fasulla come la scritta sopra una lapide. Solo la cella è vera. Oggi si festeggia la vita breve di uno come noi.
Udito
Mistero da ascoltare
di Anselm Grün
In quei canti sperimentavo il mistero della festa, il mistero di Dio fatto uomo, che è venuto a farci visita, che si è inserito nella nostra limitatezza.
Un’educatrice che lavora con bambini disabili – alcuni sono ciechi, altri sordomuti – mi raccontava che «si può festeggiare il Natale in modo migliore con i ciechi piuttosto che con i sordomuti. Infatti l’emozione del Natale, che costituisce il segreto di questa festa, si coglie attraverso l’ascolto».
Che cosa sentiamo ascoltando le canzoni di Natale o le musiche natalizie dei grandi compositori italiani come Vivaldi, Torelli, Locatelli, Corelli e Manfredini? È una musica che giunge fino al cuore.
I brani che ci trasmettono la musica natalizia vengono intitolati dai compositori per lo più con il nome di «pastorale». È una musica dei pastori, una musica colma d’amore che esprime sicurezza e mistero.
Personalmente non riesco a immaginare il Natale senza le sue canzoni. Nella nostra famiglia ogni sera ci raccoglievamo attorno all’albero di Natale e cantavamo insieme le sue dolci canzoni. Guardavo attentamente i miei genitori. Per loro erano importanti i canti della loro terra natìa, quelli che avevano imparato da bambini. E nel cantare ci hanno trasmesso la loro esperienza del Natale. In quei canti sperimentavo il mistero della festa, il mistero di Dio fatto uomo, che è venuto a farci visita, che si è inserito nella nostra limitatezza. I canti di Natale allargano questa limitatezza, creano nella mediocrità della nostra vita quotidiana una sensazione di amore, sicurezza, mistero e di terra natìa. Cantando i canti di Natale percepivo cosa significasse terra natìa. Mi sentivo a casa, entro la nostra famiglia, accolto, al sicuro, amato. Solo più tardi ho cominciato a capire che cosa aveva prodotto in me questo sentimento di terra natìa. Mi apparve chiaro che posso sentirmi a casa solo dove abita il mistero. Terra natìa e mistero si appartengono reciprocamente. A Natale sperimento la casa in cui abito come una terra natìa, perché Dio stesso con la sua nascita è venuto in questa casa. Cantando e ascoltando le canzoni di Natale sento che non siamo soli quando cantiamo. In mezzo a noi, con il suo amore e la sua tenerezza, c’è colui che noi cantiamo. Già l’evangelista Luca, nel suo racconto della nascita di Gesù, ci mostra quanto sia decisivo l’ascolto per comprendere il Natale. Mi ha fatto sempre impressione che mio padre, davanti all’albero di Natale e prima di distribuire i regali, leggesse il Vangelo della Natività. Mio padre aveva un tono di voce del tutto speciale quando leggeva queste sante parole. Il loro ascolto mi trasportava già in un altro mondo. I pastori scorgono la luce splendente dell’angelo e hanno paura. Solo le parole dell’angelo tolgono il timore: «Non temete: ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore» (Lc 2,10). Lo stato d’animo dei pastori viene trasformato da queste parole. E anche oggi sento che il mio stato d’animo viene trasformato se le ascolto consapevolmente. I pastori sentono il canto degli angeli. E nei canti di Natale ancora oggi ho la sensazione che gli angeli stessi cantano con noi. Sento che questi canti fanno risaltare la loro leggerezza e letizia. Nell’ascoltare il messaggio del Natale, udendo i canti e le musiche natalizie, la nascita di Gesù tocca il mio cuore. Non ascolto soltanto parole, ma odo anche ciò che non è udibile, il mistero, che cioè Dio stesso risuona in me tramite questa musica, un Dio di tenerezza e amore, e un Dio che trasfigura la mia vita, perché entra lui stesso nel mio cuore.
(traduzione di L. Dal Lago)
Gusto
Malaga a Natale
di Michela Murgia
Nessuno aveva portato dolci, perché mamma aveva l’usanza di fare il panettone ripieno di gelato malaga come lo faceva la nonna.
Per tutto l’anno mamma si preoccupava di dosare le visite dei parenti con parsimonia, relegandole alla domenica o possibilmente saltandole. Non andava d’accordo con zia Paola e zia Marta più di quanto loro non andassero d’accordo con lei, ma il nostro non era un mondo dove il sangue si potesse ignorare; così il rapporto tra sorelle si alimentava principalmente dalla sfida tra chi riusciva a nascondere meglio all’altra la sua ostilità, lasciando a ciascuna il dubbio di essere l’unica a provarla.
A Natale tutte e tre sfidavano il baratro dell’evidenza mettendo in scena il teatro della sorellanza con l’impegno minuzioso che si dedica alle vendette. Quella ricorrenza aveva il potere di catalizzare tutte le tensioni dell’anno e servirle come contorno acido al tavolo imbandito della cena della vigilia.
Il tavolo del Natale 1983 era quello di casa nostra e ad aprire la porta mamma mandò me, pur sapendo quanto detestassi l’essere pastrugnato tra gridolini di giubilo e considerazioni sulla mia altezza in crescita esponenziale. «Diventerà un grande cestista!», aveva detto Marta, che per trionfare nel basket credeva bastasse aver l’aspetto di una pertica.
Zia Paola invece riconosceva una palla buona quando la vedeva, specialmente se poteva schiacciarla addosso a qualcuno: «Beh, certo, se continua con questi brutti voti, poco altro gli rimarrà da fare. Ancora male in matematica, tesoro?».
«No, zia, ho preso la sufficienza», provai a mormorare, ma già non mi sentivano più, intruppate in casa in un turbinio di tacchi alti, finti baci di guancia e il sentore persistente di un deodorante dozzinale. Paola aveva le braccia cariche di pacchetti e Marta era accompagnata da un tizio con gli occhiali che ci presentò come amico, ma senza enfasi: non era nemmeno lo stesso dell’anno precedente. Nessuna aveva portato dolci, perché mamma aveva l’usanza di fare il panettone ripieno di gelato malaga come lo faceva la nonna. Mentre le portate si susseguivano con ostinata eccedenza, le conversazioni erano fatte di ricordi spaiati. Quando arrivò il panettone, mamma disse: «Eccolo, il dolce di mamma!».
Zia Paola batté le mani una volta, poi disse: «A dire il vero andrebbe fatto col pandoro, ma non importa...».
«Lo dici ogni volta, ma mamma lo faceva con il panettone, lo ricordo benissimo».
Al lato di papà, io imbottivo un fico secco con pezzetti di gherigli di noce e non sollevai nemmeno la testa: conoscevo quel tono.
«Io ricordo il pandoro. Marta, non era il pandoro?».
«Ma sì, un anno in un modo, un anno nell’altro... dipendeva, lo sai».
Entrambe la fissarono: non erano appagate dall’avere entrambe ragione. Mamma si riprese per prima. Tagliò il panettone con gesti chirurgici, poi sorrise e disse: «Quello con il panettone lo faceva perché sapeva che piaceva a me».
Zia Marta masticò la sua fetta con movimenti meccanici. Zia Paola ne prese una briciola scarsa e neppure la finì. Gli uomini tacquero e io con loro, compiaciuto.
È dal 1983 che per me Natale e malaga sono diventati sinonimi.