Nulla se non le parole
Ci sono luoghi che, anche se rimessi a nuovo, non riusciranno mai a ripulirsi dell’orrore che li ha marchiati a fuoco. Auschwitz è uno di questi. È il 27 gennaio 1945 quando gli alleati entrano nel campo di concentramento realizzato dai nazisti a Oswiecim, cittadina nel sud della Polonia, conosciuta da allora col suo nome tedesco: Auschwitz. Oltre il cancello appare l’inferno. Per la prima volta il mondo si trova davanti alla realtà dello sterminio. Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) è la scritta all’ingresso. Oggi è ancora lì. Nera, imperiosa, beffarda, sopra allo stesso cancello.
Con una legge, la n. 211 del 2000, l’Italia ha riconosciuto il 27 gennaio come «Giorno della Memoria». Lo scopo è ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, e tutti coloro che si sono opposti al progetto di sterminio.
Anche quest’anno sono in programma numerose iniziative alla presenza delle massime istituzioni, a cominciare dal presidente della Repubblica. Il ministero della Pubblica istruzione ha indetto un concorso rivolto agli studenti. È stato chiesto loro di raccogliere le parole degli ultimi sopravvissuti. Le premiazioni sono in programma il 27 gennaio al Quirinale. Di recente è nata una Rete universitaria per la Giornata della Memoria. In prima linea, a diffondere e difendere il dovere della memoria, oltre una ventina di università, dal Piemonte alla Calabria. Ideatore di questo network è Paolo Coen, ricercatore dell’Università della Calabria.
«È una Rete nazionale, unica nel suo genere – spiega –, nata per unire, sostenere e incoraggiare quei docenti universitari che vogliono approfondire lo studio della Shoah e della sua didattica, coinvolgendo gli studenti, ma anche i propri colleghi. Riconoscere il valore della memoria equivale a offrire un contributo decisivo al contrasto di ogni nuova o vecchia forma di antisemitismo e di razzismo. L’Italia è tra i Paesi più impegnati: viaggi della memoria, formazione dei docenti e coinvolgimento degli studenti in percorsi formativi. Occorre che tutto ciò non finisca con il 27 gennaio. Per questo, nel 2014, abbiamo previsto altri tre momenti: 25 aprile (anniversario della liberazione), 16 ottobre (anniversario del rastrellamento nel ghetto di Roma) e uno stage estivo».
Perché comprendere – come ha scritto Helga Schneider, autrice tedesca, che ha vissuto dall’altra parte del lager, ancora bambina – gli orrori della guerra è impossibile, ma conoscere è necessario.
La forza delle parole
Senza scarpe, senza vestiti, senza volto, perfino senza nome. Spogliati di tutto. Solo un mucchio di ossa e un numero. Impresso a vita sul braccio, e dentro al cuore. Quello che niente e nessuno è mai riuscito, però, a strappar via è il ricordo. «Nulla se non le parole» rimangono, allora, a ricordarci, scrive Primo Levi, che siamo uomini e abbiamo il dovere della memoria. «Mi hanno portato via i genitori, l’identità, il fratello e la sorella e i miei averi. C’è qualcosa che vogliono da me. Allora ho pensato alla mia anima. E ho detto: non riusciranno a portarmela via, la mia anima» afferma Irene Zisblatt, ungherese, uscita viva dall’inferno di Auschwitz.
I sopravvissuti portano dentro di sé le immagini, i suoni, persino gli odori dell’orrore. Quando si scende all’inferno, la sofferenza penetra fin nelle viscere. Impossibile staccarsela di dosso. In tanti hanno deciso di tacere. Per anni, per decenni. Perché ricordare significava rivivere quei momenti. Perché la sofferenza ogni volta era più forte e insopportabile. Perché, come ha scritto Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto, il silenzio è una sorta di passaggio obbligato: «Per esprimere la sofferenza, anche delle parole, è assolutamente necessario rimanere in silenzio e scoprire quel silenzio necessario che c’è in esse. Si può usare il silenzio nella scrittura e si ha il diritto di farlo, ma non si ha il diritto a rimanere in silenzio quando c’è qualcun altro che ha bisogno della nostra parola».
Elie c’era. Helga e Irene c’erano. Anna Frank c’era. Primo Levi c’era. E c’erano anche Enrico, Palma, Gaetano e Giuseppe. Sono gli ultimi testimoni italiani, ancora in vita, di quella tragedia. Il ricordo (nella più stretta etimologia di «ri-portare al cuore») dei fatti, narrati attraverso i loro occhi e le loro parole, è un bene prezioso che va cercato, raccolto, restituito in particolare alle giovani generazioni. «Il peggior male – scrive Hannah Arendt nel suo La banalità del male – non è il male radicale, ma è il male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti». Parole che potrebbero essere in tutto simili a quelle di chi ha vissuto le crudeltà della guerra in Kosovo o in Afghanistan, la crudeltà di qualsiasi guerra, in qualsiasi parte del mondo. Ieri come oggi. E che, per questo, abbiamo l’obbligo di non disperdere.
Enrico, l’ultimo Sonderkommando
«Per sessant’anni non ho raccontato nulla. Neanche ai miei figli. Ho detto qualcosa a mia moglie solo prima della sua morte». Enrico Vanzini, nato a Fagnano (VA), ha 91 anni. Nella sua casa, vicina al bosco e al ruscello, non c’è nulla fuori posto: la cucina economica, la credenza con sopra le medicine, un televisore e una tastiera. «Sono finito sotto le armi a 18 anni; ma il periodo peggiore sono stati gli ultimi sette mesi. Li ho trascorsi a Dachau. Pesavo 86,3 kg prima di entrare. Sono uscito che ero un mucchietto di ossa: 29,4 kg. Quando tornai, mia mamma mi chiese chi fossi. Sono rimasto un anno in ospedale. Per pagarmi le cure i miei genitori furono costretti a vendere tutto ciò che avevano».
Enrico arriva a Dachau nell’agosto 1944. «Mi mandavano tutti i giorni a riparare binari in stazione o a riempire le voragini provocate dalle bombe. Una mattina la mia vita cambiò. Mi scortarono fino a un edificio oltre le caserme delle SS. Non sapevo cosa ci fosse all’interno. Lo capii appena varcata la soglia. Due forni accesi e l’odore della morte. I nazisti mi assegnarono al Sonderkommando, unità speciale di internati costretti a cremare i prigionieri morti. Non lo sapevo. Mi trovai a caricare i cadaveri e a farli scivolare nei forni». Pochi i Sonderkommando sopravvissuti. All’inizio ricevevano un trattamento di favore. Per essere, poco dopo, giustiziati. Avevano visto. C’era il rischio che potessero parlare. Enrico si salva solo perché la guerra sta per finire e i tedeschi hanno fretta di mettersi al sicuro. Vanzini è l’ultimo italiano, di quelle unità speciali, ancora in vita. «In due settimane avrò bruciato almeno un migliaio di morti. L’odore era terribile, mi par di sentirlo ancora oggi. Così come quel suono, il rumore dei nervi umani che scricchiolavano tra le fiamme».
Un giorno Enrico viene portato oltre un’altra porta poco più in là rispetto ai forni. Mai avrebbe immaginato che là potesse esserci un orrore ancora più grande di quello degli stessi forni: «Li ho visti. Io li ho visti i morti soffocati col gas. Mi ordinarono di staccarli. Ma erano troppo stretti, avvinghiati gli uni agli altri. E poi, ancora oggi, qualcuno osa dire che le camere a gas non sono esistite». Sul tavolo Vanzini tiene in evidenza tre pagine fitte di date, incontri, soprattutto nelle scuole dove sta portando, ininterrottamente, la sua testimonianza. «Sono stato zitto per sessant’anni, ora è giusto che parli con tutta la voce e le parole che mi rimarranno». A bordo della sua auto rossa percorre chilometri e chilometri. Sembra non essere mai stanco. «Suonavo la fisarmonica, un tempo. Oggi, però, le mie mani sono deformate a causa del freddo e delle bastonate. Riesco a vestirmi e a suonare, come posso, questa vecchia tastiera. La musica fa volar via, per un attimo, i ricordi, e mi basta».
«I bambini non devono vedere»
I nazisti non uccidono solo nei lager. Tra le pagine più crude, gli eccidi, oltre 400, perpetrati dalle SS in territorio italiano tra il 1943 e il 1945. Una lunga scia di sangue che non si dimentica, nemmeno a distanza di settant’anni. Boves fu la prima, e ancora Marzabotto, Gorla, Sant’Anna di Stazzema per citarne alcune. Molti di questi eccidi avvengono durante la ritirata. Come la strage compiuta da un manipolo di tedeschi tra il 27 e il 29 aprile 1945. Inizia nel padovano per concludersi con l’eccidio di Castello di Godego (TV): 136 i civili inermi trucidati. Ad Abbazia Pisani (PD) vengono messi in fila davanti al muro nel cortile dello stabilimento Fiat. Palmira, detta Palma, è la moglie di Bruno Chiarioni. Il marito le muore davanti agli occhi. Oggi ha 94 anni. «Stavano per uccidere anche me e le bimbe: Luciana di 4 anni e Leda di 2. Poi, però, arrivò il comandante, sopra a un cavallo bianco: “Non uccidete donne e bambini” disse».
Palma ricorda quel giorno. «Era domenica mattina. Pioveva. Bruno era andato nei campi. Ci dicevano che la guerra era finita, ma io sentivo che stava per accadere qualcosa di terribile. Avevo 25 anni e tanta paura. Lo avevo detto a mio marito. Per questo tornò a casa: non se la sentiva di lasciarci sole. I tedeschi arrivarono poco dopo le 11. Bruno si nascose nel sottoscala. In casa avevamo anche degli sfollati. Quando i tedeschi fecero irruzione, uno di loro ebbe la prontezza di nascondersi sotto al divano. Fu la sua salvezza. I tedeschi trovarono mio marito.
Uccisero prima, con una ferocia inaudita, tre fratelli: Duilio, Vittorino e Ivo Agostini, di 21, 19 e 16 anni. Vedevo Bruno, lui mi guardava. Ancora oggi, di notte, quello sguardo non mi abbandona. Poi toccò a lui. Gli puntarono la pistola alla tempia sinistra. Il colpo gli uscì dalla parte opposta, verso l’alto. Poi entrarono in casa. Mi chiesero una coperta per coprire i corpi. “I bambini non devono vedere”, mi dissero». Ma Luciana aveva già visto tutto: «Gli uomini a terra, e anche papà. Ma di più ricordo il rumore. Una sorta di gorgoglio. Era il sangue che, dai corpi, scendeva giù, verso l’unico scarico al centro del cortile». Gaetano Passudetti oggi ha 88 anni. Ne aveva 20 quando si nascose sotto a quel divano. «La signora Teresa mi affidò i figli. Ero stato in guerra, avrei potuto difenderli. Ma i tre fratelli Agostini furono uccisi. Non ho mai smesso di chiedermi perché mi sono salvato. L’unica risposta è che, poco dopo la carneficina, ho curato due tedeschi feriti. Pur armati, non mi fecero nulla. Chissà se sono ancora vivi».
Giuseppe, «Bassi l’ora»
Tutti i lager funzionano allo stesso modo. Appena arrivi ti tolgono tutto: le scarpe, i vestiti, il nome. Ma c’è anche un’altra cosa che tolgono subito: l’orologio. Scandisce il tempo, fa sentire vigili, attenti, vivi. Giuseppe Bassi oggi ha 94 anni. Partì l’8 febbraio 1941 per la Russia. Fatto prigioniero, fu liberato il 6 aprile 1946. «Dopo una marcia di 60 chilometri, a piedi, 30 gradi sottozero, sono arrivato a Suzdal, 280 km da Mosca, città monumentale con cinque monasteri. Noi eravamo dentro uno di questi: il lager n. 160». Fuori dal mondo, ma non dal tempo. Singolare la storia del suo orologio. Fu l’unico a sfuggire alle perquisizioni. Bassi lo nascose in una scarpa, dentro a un calzino. «Nel lager, quando qualcuno voleva conoscere l’ora, la chiedeva a me. Tanto che mi avevano soprannominato “Bassi l’ora”».
Giuseppe quell’orologio lo conserva ancora. Così come le parole e i luoghi della sua prigionia. Mentre è internato, lui che di professione fa il geometra, riproduce, sulle scatole dei fiammiferi e sulle cartine delle sigarette, edifici e paesaggi che è stato possibile ricostruire grazie a quei minuscoli tratteggi. «Ho tenuto anche un piccolo diario. L’ho nascosto sotto la cintura. Disegnavo, scrivevo e guardavo il cielo. Mi teneva in vita». Sono pagine dense, come questa: «Nel lager di Oranki il soldato russo distribuiva picconi e vanghe. Poi ci ordinava di scavare fosse destinate a seppellire centinaia di cadaveri di italiani, tedeschi, romeni e ungheresi. Potevano essere, un giorno, le nostre».
I disegni si trovano oggi nel museo del villaggio di Oranki. Solo la memoria di ciò che è stato può non far ripetere gli errori. Ma anche farci comprendere che, in ogni epoca, è sempre possibile scrivere pagine di storia finora mai scritte. Basta guardare oltre i fili spinati, al di là degli steccati. Basta solo guardare il cielo. Proprio come ripeteva a Jona, protagonista del libro Anni d’infanzia di Jona Oberski (da cui è stato tratto il film Jona che visse nella balena, di Roberto Faenza), sua madre: «Guarda sempre il cielo e non odiare mai nessuno».
ETTY HILLESUM
Le memorie di Etty Hillesum, nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg, in Olanda, e morta ad Auschwitz, il 30 novembre 1943. A undici quaderni, e a un gruzzolo di lettere, ha affidato le sue parole contro l’orrore.
Può una semplice parola affidata a inchiostro e carta infrangere il silenzio? Una pagina scritta è in grado di attraversare indenne non dico i secoli, ma almeno l’odio di oggi, per farsi accusa e memoria indelebile? È sensato scrivere nei tempi del genocidio, quando, secondo alcuni, ad Auschwitz il linguaggio avrebbe perso tre sue dimensioni costitutive: adeguatezza, significanza e, appunto, credibilità? È famosa l’affermazione sconsolata ma perentoria di Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile». Inutile aggiungere che anche il «parlare di Dio» ne è uscito un po’ malconcio e tutt’ora in grande difficoltà…
Questa è stata invece la speranza che ha animato e sorretto Etty Hillesum, una delle tante vittime della Shoah, giovane donna olandese che, come estrema forma di resistenza, affidò a undici quaderni, dall’8 marzo 1941 al 13 ottobre 1942, più un bel gruzzolo di lettere, le sue parole contro ciò che di pazzesco stava succedendo attorno a lei.
Secondo la Misnah e il Talmud, al tempo della creazione, ci fu un’estrema scheggia di tempo tra i sei giorni che dettero origine al mondo e l’inizio del riposo del primo sabato. In quel breve lasso di tempo, Dio creò ulteriori dieci cose, tra cui le lettere della scrittura. Colpisce allora la «vocazione alla scrittura» a cui Etty si sentì chiamata: una vocazione davvero «divina», «ispirata», la sua «grafomania», l’ansia, espressa più volte nel suo Diario, di trovare la parola «giusta», quella e solo quella che davvero potesse contenere il sentimento provato, l’esperienza che si sta vivendo, con verità e chiarezza. Una parola «buona», però, per non aumentare il saldo finale di odio. Ma di cercarla comunque e sempre, come se fosse un autentico imperativo morale o quella «franchezza di linguaggio» che l’apostolo Paolo avrebbe chiamata «parresia» (At 28,31).
E questo colpisce tanto più che il nazismo stava piuttosto «violentando» il linguaggio, con termini insospettabili pur di dire e non dire cosa stava realmente succedendo: «sfoltimento» (Auflockerung), «soluzione finale» (Endlösung), «evacuazione» (Aussiedlung), «trattamento speciale» (Sonderbehandlung) e via dicendo. Del resto, sarcasticamente Buchenwald alla lettera significa «bosco di faggi», Birkenau «campo delle betulle»… Mentre, forse, il resto dell’Occidente da par suo faceva finta di non vedere, e quindi non ne parlava neppure. Non è già questa la prima forma di resistenza, il modo con cui «esserci» comincia a concretizzarsi? Dire «sì sì, no no» (Mt 5,37)? Racconta Hannah Arendt, nel famoso libro La banalità del male, che al processo Eichmann a Gerusalemme, un testimone asserì che al tempo della «soluzione finale» la cosa peggiore che potesse accadere a un essere umano era restare «innocente», e cioè non prendere in qualche modo posizione.
Eppure Etty, «nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra» (Diario, 20 giugno 1942), riuscì a restare allo stesso tempo «innocente» e «presente», e forse a esserlo molto più di tanti. Qualcuno avrebbe potuto dire di lei che possedeva «la competenza dell’essere»: esserci in pienezza, non rassegnati né arresi, presenziare alla vita esteriore, perché contemporaneamente si è nella propria vita interiore. Esserci, decidendo in qualche modo persino di non sottrarsi all’eventualità di andare in campo di concentramento, o per lo meno di non fare nulla per evitarlo.
Perché ci vorrà ben qualcuno disposto alla fine a esserci, con le proprie mani per pregare e con i propri occhi scuri per vedere e raccontare (Diario, 11 luglio 1942). Con la propria penna e un foglio bianco da sporcare di parole, per intanto. Parole come filo spinato per «contenere» il male, ma anche come calda coperta perché… faccia meno male: «Dammi un piccolo verso al giorno, mio Dio, e se non potrò sempre scriverlo perché non ci sarà più carta e perché mancherà la luce, allora lo dirò piano, alla sera, al tuo gran cielo. Ma dammi un piccolo verso di tanto in tanto» (Diario, 24 settembre 1942).