Nuovi media, prigione e libertà

Internet, palmari, social network sono un’opportunità, ma anche un obbligo: «L’ambivalenza è irrisolvibile, dobbiamo conviverci» sostiene il sociologo che, sulle orme del maestro McLuhan, è tra i massimi interpreti del mondo digitale.
01 Agosto 2011 | di

Non gli daresti i quasi settant’anni che ha. Non diresti nemmeno – al primo impatto – di avere a che fare con un professore universitario di primo piano. Sarà per il piglio estroverso, l’energia, il fisico asciutto, l’abbigliamento casual; saranno gli argomenti che usa, i temi che tratta, l’italiano marcatamente francese eppure fluente. Lui è Derrick de Kerckhove, il belga-canadese sociologo della cyber-cultura tra i maggiori interpreti del mondo digitale, docente all’Università Federico II di Napoli. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di Marshall McLuhan, il celebre massmediologo studioso degli effetti dei mezzi di comunicazione sulla società. «Lei scrive per il “Messaggero di sant’Antonio”? – incalza subito il sociologo, incontrato all’ultimo Festival della comunicazione –. Devo molto al Santo, ho ritrovato tante cose grazie a lui! Una volta, addirittura, la borsa che avevo lasciato al binario in stazione, e che avevo dato ormai per perduta…».

Msa. Quest’anno si ricordano i cent’anni dalla nascita di McLuhan, di cui lei è considerato il principale erede. Il suo mae­stro come avrebbe voluto essere ricordato?
De Kerckhove. Difficile da dire, eppure è una questione rilevante. Pensi: una volta partecipavo, con Bill Gates, a una trasmissione televisiva in Canada. Un giornalista fece a Gates la stessa domanda che lei mi sta rivolgendo ora, ovvero per che cosa avrebbe voluto essere ricordato. E lui rispose: «I’m not in the business to be remembered through anything», cioè «Non è il mio scopo farmi ricordare». Tuttavia, giusto tre mesi dopo, creò la Fondazione filantropica Bill e Melinda Gates. Vuol dire che questa domanda era abbastanza importante per lui.

Io credo che McLuhan, da giovane, fosse molto ambizioso. Voleva essere conosciuto, farsi una posizione, ed era anche preoccupato di dire cose in sintonia con il mondo cattolico. McLuhan era un convertito, ci teneva molto al suo essere cristiano: il cristianesimo era la sua ispirazione fondamentale, anche se non ne parlava troppo negli scritti pubblici. Ero presente quando un giornalista, nel suo studio, notò il crocifisso appeso al muro e gliene chiese ragione, domandandogli se fosse cattolico. «Yes, I’m a convert, the worst kind» rispose il professore, ovvero «Sì, sono un convertito, un cattolico della peggior specie». Penso che gli sarebbe piaciuto essere ricordato come un convertito.

Una delle teorie più famose di McLuhan è sintetizzata nella frase «Il medium è il messaggio». In che modo le nuove tecnologie stanno formando il nostro cervello, e come influiscono sul nostro essere?
Di recente a Napoli e a Roma ho invitato a parlare Norman Doidge, un collega dell’Università di Toronto che si occupa proprio di questo. Nel suo libro Il cervello infinito ha spesso citato McLuhan, dimostrando, dal punto di vista della neuroscienza, che realmente il medium è il messaggio. Doidge, infatti, ha provato che la nostra routine comunicativa cambia alcune relazioni sinaptiche pertinenti al nostro cervello. Io stesso mi sono occupato del rapporto tra il cervello e la scrittura nel mio libro L’architettura dell’intelligenza, dove studio le origini dell’alfabeto e il suo ruolo nella strutturazione dello spazio e dei pensieri. Sono questioni un po’ complicate da spiegare, ma tutto è un po’ complicato con il cervello. E del resto il mutamento della mente è episodico, non è l’aspetto essenziale.

A che cosa si riferisce?
Sono convinto che il cambiamento principale provocato dai nuovi media si esplichi a livello sociale, psicologico, dei sentimenti, del rapporto con sé e con gli altri. È un fenomeno che si accompagna all’obbligo di essere connessi sempre, sempre a disposizione, alla paura di essere sconnessi, all’obbligo anche di fare corpo sociale di fronte a certi avvenimenti. A tale riguardo credo che oggi Twitter rappresenti il frutto più maturo della Rete, perché dà la possibilità di trasmettere l’immediatezza di una situazione. Esso può venire utilizzato non solo per dire che, per esempio, sto mangiando una pizza, ma anche per lanciare messaggi più significativi, del tipo: «Mi trovo in piazza Tahir al Cairo e vi aspetto per protestare contro Mubarak». Questo è Twitter. Si realizza così la possibilità, predetta da McLuhan, di rispondere nell’immediato a ciò che accade.

Lei però parla di obbligo: ma allora comunicare con le nuove tecnologie è una scelta di libertà, una possibilità, o è, invece, un dovere, una costrizione sociale?
I due aspetti sono inseparabili. Siamo sempre più limitati dalle banche dati su di noi, ovvero dalle tracce elettroniche delle navigazioni, dalle informazioni che immettiamo in Rete, dalle preferenze che accordiamo, da foto e video che condividiamo. Diceva già McLuhan: «Più si sa di te e meno tu esisti». L’idea è che da un lato siamo prigionieri delle informazioni su di noi, dall’altro siamo liberati dalla possibilità di fornire nuove notizie, su di noi e sul resto del mondo. Questo fenomeno è l’intreccio tra la libertà dell’individuo e la camicia di forza elettronica: un’ambivalenza che McLuhan aveva già individuato per la televisione, che da una parte ci libera, dall’altra ci rende prigionieri. L’ambivalenza è irrisolvibile, dobbiamo conviverci. Se da un lato, per fortuna, abbiamo ancora la possibilità di godere della dimensione di libertà, dall’altro dobbiamo vigilare affinché il potere non usi il web come un formidabile strumento di controllo.

Nel caso di quella che è stata definita la «primavera araba», i nuovi media hanno giocato un ruolo liberante.
È vero, ma dobbiamo essere precisi su quali media e sul dove. Non c’era Twitter in Tunisia, ma c’erano telefonini che scattavano foto e giravano video: pubblicati su Facebook, hanno documentato ora dopo ora la rivoluzione tunisina, permettendo al mondo intero di vedere, ad esempio, gli spari della polizia sui manifestanti. L’aspetto più importante oggi è che l’opinione pubblica da locale è diventata globale.

È una dinamica che trasforma il modo di relazionarsi con la politica.
Decisamente. Il primo segnale importante è stata l’elezione di Obama, impensabile fino a poco tempo fa, con gruppi di interesse on line che si sono organizzati, disgregati, autoconvocati, uniti ad altri... Bisogna fare i conti con un coinvolgimento politico nuovo, i cui effetti cominciano a vedersi anche in Italia, dove i giovani – è il caso degli ultimi referendum – tornano a sentire la responsabilità di partecipare alla vita politica. Si tratta di un cambiamento fondamentale, perché questa generazione costruirà il futuro del Paese.

Quanta realtà e quanta finzione ci sono in internet?
C’è di tutto in Rete, come c’è di tutto nella testa di ciascuno di noi. Io comunque credo molto di più nella spontaneità di internet piuttosto che nella finzione deliberata. È pericoloso fingere sul web. Negli Usa si dice: «You can fool everybody for part of the time, you can fool some people for all the time, you cannot fool everybody for all the time». Vale a dire: «Puoi ingannare tutti per un po’ di tempo, puoi ingannare qualcuno per sempre, ma non puoi ingannare tutti per tutto il tempo». Così accade su internet. Personalmente non ho paura della Rete, anche perché ora dopo ora è sempre più studiata: è alta la consapevolezza di questo nuovo Rinascimento.

Sarà anche un Rinascimento, ma non mancano ombre. Ad esempio, c’è chi sottolinea l’abbassarsi della soglia di attenzione dei nativi digitali, sempre meno capaci di concentrarsi. Anche la trasmissione del sapere andrà sempre più nella direzione della brevità, con frasi corte come sms?
È la tesi del famoso articolo Google ci rende stupidi? di Nicholas Carr. Non ci credo troppo: ciascuno di noi è un nodo di un ipertesto sociale che è in comunicazione permanente e immediata. Avviene come col pensiero. Se le chiedo di pensare a suo padre, subito le viene in mente il suo volto: il momento di incontro tra la domanda e la risposta è istantaneo. È quanto succede con i motori di ricerca sul web. Abbiamo a disposizione su pc e palmari un’intelligenza e una memoria infinitamente più potente di quella della nostra testa. E possiamo così liberare la mente per relazionarci con le persone. Mi sembra un approccio molto più interessante rispetto all’affermare che siamo resi stupidi.

In Rete si diffondono sempre più foto, video, informazioni di prima mano su qualsiasi avvenimento, prodotte da chiunque. Il giornalismo – che ha il compito di mettere ordine, certificare, dare credibilità, selezionare le notizie – ha ancora un futuro?
L’autorevolezza del giornale classico – che dovrà essere sempre più preciso su ciò che scrive – sarà ancor più necessaria. È importante per la democrazia e per tutti avere una voce pubblica, affidabile, autorevole, non controllata dal governo. Direi poi che il caso WikiLeaks è stato un esempio interessante di alleanza tra giornalismo tradizionale e citizen journalism, l’informazione dal basso, fatta dai cittadini, anche se WikiLeaks stesso è un modello che fa storia a sé. Assange e il suo gruppo hanno coinvolto alcuni autorevoli quotidiani per verificare parte del materiale che avevano raccolto, prima di renderlo pubblico. Alla fine non hanno rivelato granché, ma almeno hanno messo nero su bianco le cose che tutti già sapevano. E ciò contribuisce a cambiare il rapporto tra il potere e le persone. Direi che abbiamo bisogno di questo rapporto binario tra il cittadino e il giornalismo, sia nella raccolta delle notizie che nella diffusione delle stesse che nell’espressione della propria opinione su quanto è successo. Credo che tutto ciò sia importante per il giornalismo classico.

D’accordo per il giornalismo. E come vede la Chiesa alle prese con i nuovi media?
Bene, soprattutto grazie a papa Ratzinger i segnali positivi non mancano. Tanto quanto Giovanni Paolo II è stato il Papa della televisione, Benedetto XVI lo è di internet, sia perché in Rete è molto presente – su Youtube per esempio – sia per quanto ha riflettuto e scritto in merito.       

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017