O belle ciao!

Staffette, fattorine, infermiere, vivandiere. Volti, storie e nomi di donne «semplicemente» coraggiose che hanno fatto la Resistenza e la nostra storia.
25 Aprile 2018 | di

Il dossier sulle donne della Resistenza prosegue sul percorso tracciato dagli approfondimenti che il Messaggero di sant’Antonio ha dedicato, con vari servizi, alla guerra del 1915-1918 e alla Seconda guerra mondiale.

Un focus volutamente mirato: il ruolo delle donne in un particolare momento storico per il nostro Paese.

Donne che imbracciano il fucile e, se ne hanno l’ordine, sparano. Ma anche donne che, pur non militando in alcuna brigata e senza sia mai stato loro comandato, portano da mangiare ai ragazzi che combattono in montagna come in pianura, soccorrono i feriti, ospitano i fuggiaschi. Tessitrici di pace in tempo di guerra.

Queste le donne della Resistenza. Staffette, fattorine, infermiere, vivandiere, sarte. Ricoprivano tutti i ruoli. Volti, storie, nomi ancora oggi poco conosciuti. Che ne sappiamo di loro? Che ne sanno le giovani generazioni? Abbiamo provato a capirlo «sul campo». Ingresso di un istituto superiore. Campanella della quinta ora. A uscire per primi i ragazzi di una quarta. «Il nome Tina Anselmi vi dice qualcosa?». «Tina? Tina chi? Forse la concorrente di… No, non mi dice nulla», risponde una ragazza. Il compagno aggiunge: «Forse è una politica? Sì, è una che sta in politica».

Il sondaggio, per quanto empirico, è utile cartina di tornasole. Se il nome di Tina Anselmi, prima donna a essere nominata ministro nonché presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, ma prima ancora staffetta partigiana, rimane pressoché sconosciuto, figurarsi quelli, per citarne alcuni, di Carla Capponi, Irma Bandiera, Livia Bianchi, Gina Morellini e delle poche altre oggi in vita, dal Piemonte all’Emilia Romagna, dalla Lombardia al Veneto, dalla Liguria al Lazio.

Nei libri di storia si accenna appena alla loro partecipazione, sebbene l’apporto sia stato determinante. Una Resistenza poco studiata, nonostante numeri importanti.

Stando ai dati Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) furono 35 mila le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20 mila le patriote, con funzioni di supporto; 70 mila le donne organizzate nei Gruppi di difesa della donna; 16 le medaglie d’oro, 17 quelle d’argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1.750 le donne ferite; 4.633 quelle arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1.890 le deportate in Germania.

«Per molti anni la partecipazione femminile è stata relegata non tanto e non solo nel silenzio, quanto e soprattutto in un ruolo del tutto secondario e accessorio rispetto al ruolo “fondamentale” svolto dagli uomini», osserva Santo Peli, docente di Storia contemporanea all’Università di Padova, tra i massimi studiosi della Resistenza.

Un limite interno, di frequente, alle stesse organizzazioni. Tra gli esempi, quello di Marisa Musu. «Rosa», il suo nome di battaglia, è una nota gappista romana, fidanzata a sua volta con un comandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica). A un certo punto si fa avanti rivendicando un ruolo più attivo. Giorgio Amendola, dirigente del Pci, le risponderà così: «Vuoi stare davvero vicina al tuo compagno? Allora rammendagli i calzini la sera».

Il ruolo delle donne si concretizza in due modi. Il primo è quello che Anna Bravo definisce di maternage, ossia l’atteggiamento verso i fuggiaschi – in particolare dopo l’8 settembre – che consiste nel nasconderli o procurare loro sostentamento.

Lo si fa, come emerge dai racconti, perché si hanno figli, fratelli, parenti sul fronte e si spera che, anche lontano, un’altra donna, una madre, una sorella facciano altrettanto. È la resistenza civile delle donne, ma anche delle famiglie che ospitano, che rivestono i soldati, che bruciano gli abiti militari, che accolgono chi è ferito e chi scappa.

E poi c’è l’impegno in prima linea nella guerriglia armata. «Le donne che fanno parte del terrorismo urbano, ma non sparano, trasportano armi – prosegue Santo Peli –. Le consegnano poco prima della missione, le ritirano poco dopo. Sono una sorta di “cellulari” dell’epoca: sono loro a mantenere il filo diretto, il collegamento tra comandanti e brigate. Conoscono il territorio palmo a palmo. Sono insieme armieri, trasportatori, informatori.

La figura più conosciuta è quella della staffetta. Si muove in bicicletta o a piedi con rischi altissimi».

Ci sono poi le donne che imbracciano il fucile e sparano. Tra le più famose, le quattro gappiste romane: Carla Capponi (partecipò all’attentato di via Rasella), Marisa Musu, Lucia Ottobrini e Maria Teresa Regard.

«Il silenzio è la nota distintiva nella storia di molte. La vera scoperta è che, nelle situazioni estreme, non sono affatto deboli, anzi. Qualche esempio? Il comandante Gap Giovanni Pesce, atteso a un importante incontro, preferisce inviare la “morosa”. Lei sarà catturata e spedita in un campo di concentramento a Bolzano, ma non parlerà nean­che sotto tortura.

Le donne non parlarono allora, non lo faranno nemmeno dopo. Non è un caso, scrive lo storico Manlio Calegari, che «del passato a volte restino, nel nostro ricordo, solo i gesti senza le parole, un film muto».

Chi sono, allora, gli eroi? Sul tavolo del governo giace una proposta di legge, mai attuata, per l’istituzione, il 24 aprile, della Giornata nazionale delle donne della Resistenza. Forse una delle tante occasioni per far conoscere le storie di donne «semplicemente» coraggiose.

Come quella di Gabriella Degli Esposti. È il 17 dicembre 1944, San Cesario sul Panaro (MO). «Io, urlando, mi rivolsi a lei – racconta la figlia Savina in Gabriella Degli Esposti, mia madre, ed. Artestampa –. Le chiesi: “Mamma, cosa devo fare?” “Nulla!” rispose. “Non ti preoccupare. Penso a tutto io”. Con un sorriso mi mandò un bacio mentre i suoi aguzzini me la portavano via per sempre».

 

Nome di battaglia «Renata»

Lo sguardo è attento, vivace. Le parole altrettanto rapide e pronte. La professoressa Paola Del Din, nome di battaglia «Renata» (dal nome del fratello ucciso il 25 aprile ‘44), il 22 agosto compirà 95 anni. Ha iniziato a raccontare la sua Resistenza quando ne aveva più di 80. Lo ha fatto per intero solo poco tempo fa. «Dovevo riprendermi la mia vita e viverla. Era l’unico modo per riuscirci». Il suo nome lo conoscono in pochi. Eppure, poco più che ventenne, già trasportava documenti segreti attraverso l’Italia occupata. Apparteneva alle Brigate Osoppo, formazioni partigiane autonome, fondate nel Seminario arcivescovile di Udine nel 1943. «Del resto, cosa potevamo fare? Non c’erano molte alternative, non ci era stata data una seconda possibilità – racconta la professoressa Paola, una laurea in Lettere all’Università di Padova dopo la Liberazione –. Abbiamo fatto ciò che doveva essere fatto, niente di più. Non chiamateci “eroi”. Come ripeto sempre, la vita andava avanti, a noi era stato dato di viverla in tempo di guerra. Abbiamo accettato ciò che la vita ci riservava in quel momento, ma accettazione non significa rassegnazione».

 

L’articolo e le interviste integrali sono disponibili nel numero di aprile 2018 della rivista e nella versione digitale.

Data di aggiornamento: 25 Aprile 2018

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