Ognuno ha il «suo» Dio nel cuore

Ognuno può vedere Gesù «riconoscendolo» nelle sembianze di una persona cara, nel compagno della vita.
06 Maggio 2001 | di

La Pasqua è passata, il suo nome viene da Pesach, passaggio: dalla tenebre alla luce. In piena Quaresima qualcuno ha distribuito ai giornali una sorta di identikit, corredandolo con una didascalia che pressappoco diceva: ecco, questo è il volto di Gesù di Nazareth, «ricostruito con strumenti sofisticatissimi mai prima d' ora usati e basandosi su di un 'reperto osseo' di un' epoca che corrisponderebbe a quella in cui Gesù, appunto, visse e morì».

Lo avrete visto, cari lettori, codesto «volto» di Gesù e, penso, ne sarete rimasti vagamente sconcertati. Il perché è presto detto: non corrisponde, quel volto ricavato elettronicamente coi vari microchip o come, vattelapesca, si chiamano, non corrisponde alla iconografia che ci hanno tramandato, ad esempio, i maestri d' icona bizantini. Non corrisponde a certe «descrizioni», ancorché vaghe, che si possono indirettamente ricavare dai Vangeli. Ma ammettiamo pure che quell' identikit non si discosti troppo dal vero: cosa cambia? Non cambia nulla. Ognuno di noi porta il «suo» Dio nel cuore; Dio, e dunque suo figlio, è come il Sole: riscalda tutti. Di più: ognuno può «vedere» il volto di Dio Gesù, «riconoscerlo» in un' alba sconfinata nella sua bellezza pura, e persino nel volto di un figlio fanciullo ovvero nelle sembianze di una persona cara, amata; nel compagno della vita, consacrata dal matrimonio, nella compagna amorosa che ti allieta l' esistenza.

Come sappiamo, per gli Ebrei, «nostri fratelli maggiori» secondo la oramai famosa definizione del Santo Padre in visita alla Sinagoga di Roma, per gli Ebrei Dio è innominabile. Nel suo I dieci comandamenti (Mondadori), fresco di stampa, il celebre biblista André Chouraqui (insignito, fra l' altro, del prestigioso Premio Giovanni Agnelli), guardate un po come trascrive il terzo comandamento dettato tre millenni or sono. «Non porterai invano il nome di , tuo Elehim...». Mette una sull' altra, graficamente, due «definizioni» di Dio omettendo di nominarlo in chiaro. E lo fa per «rispettoso spavento», spavento della possanza di Dio.

I musulmani, Dio (Allah) lo nominano né si astengono dallo scriverne il nome, tuttavia nel mondo islamico non esiste, non può esistere, non deve circolare, diremo banalmente, l' immagine di Allah. Per rispetto, per evitare quello che gli islamici ritengono sarebbe un blasfemo atto di presunzione.

Del pari, nelle antichissime miniature, nella oleografia dell' islam, sono, diremo, omesse le stesse sembianze di Maometto, dei Califfi che seguirono al Profeta. Questo, attenzione, per quanto riguarda i Sunniti, i musulmani originali, giacché gli Sciiti riproducono il volto dei loro profeti, e sinanche quello di Khomeini «promosso» a furor di popolo l imam supremo nascosto, infine riapparso.

Ma allora noi cristiani che abbiamo da sempre raffigurato il figlio di Dio e quest' ultimo, Iddio Padre, adoriamo riconoscendolo in Michelangelo (per fare l' esempio iconografico più altamente drammatico), ma allora noi cristiani cadiamo in errore? No: noi cristiani ci adeguiamo alla Bibbia dov' è detto che nostro Signore Iddio fece l' uomo a sua immagine e somiglianza. In senso lato, ovviamente, e tanto aperto che il Dio dei cinesi è giallo e ha gli occhi a mandorla, mentre la Madonna dell' Angola è nera, eccetera. Poiché ognuno, alla fine, si porta dentro il «suo» Dio, potremmo, noi cristiani, fare a meno di rappresentarlo se non fosse che vederlo così come pensiamo che sia, aiuta. Conforta, rassicura. E per un motivo semplice, persino ovvio nella sua purezza: Dio volle che suo figlio Gesù fosse uomo come gli altri; volle che vivesse da uomo e patisse le umane cattiverie, fino al sacrifizio finale. Insomma, Dio umanizzò suo figlio per aiutarci a credere nell' Altro, perché noi si avesse la beata speranza nella Vita vera, un giorno: quella senza peccato ne dolori.

Tutto questo discorso, cari lettori, è il succo di una lunga conversazione avuta a Calcutta, nell' estate del 1965, con Madre Teresa impegnata allora a vitalizzare i lebbrosi. È dunque con Madre Teresa che il Vecchio Cronista ha «dialogato» durante la Pasqua trascorsa. E ai cari lettori che mi scrivono in tanti (ma io non posso rispondere a tutti) faccio ancorché in ritardo di calendario, un piccolo grande regalo. Madre Teresa, dopo il nostro primo incontro, mi regalò un rettangolino di carta sul quale era stampato quanto segue: «I cinque chicchi di riso: 1) Il frutto del silenzio è la preghiera. 2) Il frutto della preghiera è la fede. 3) Il frutto della fede è l' amore. 4) Il frutto dell' amore è il servizio. 5) Il frutto del servizio è la pace».

 

P.S. Il prezioso rettangolino che mi regalò Madre Teresa, è stato ospitato nel Mattutino che monsignor Ravasi pubblica sull' «Avvenire». Pubblicandolo, questo sommo e intelligente biblista moderno mi ha fatto un regalo veramente tenero. Così come, oggi, io spero di fare, teneramente, con voi, cari lettori.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017