Quando il fuoco non muore
Che Tina Modotti sia stata una donna fuori dall’ordinario lo testimoniano ancora oggi le sue foto. Che abbia avuto un destino inconsueto è fatto pure innegabile. Nasce nel 1896 a Udine e muore a Città del Messico nel 1942. In un tempo in cui le donne friulane vanno a lavorare in filanda, pensano a sposarsi e a mettere al mondo dei figli, lei ama la poesia, l’arte, e sceglie un’esistenza non comune. A 12 anni Assunta Adelaide Luigia (detta Assuntina da cui deriverebbe Tina) è costretta a interrompere gli studi per andare a lavorare in una filanda, poi in una tessitura di seta. Nel 1913, la bella diciassettenne, con occhi intensi, fronte bassa, capelli neri divisi sul capo da una scriminatura, salpa da sola, sulla nave tedesca Moltke, da Genova per l’America, dove raggiunge il padre e una sorella. Tutto nella vita di Tina è precoce, anticonvenzionale. Arrivata in California, lavora in una fabbrica di camicie, poi recita nei teatri della Little Italy e a Hollywood. Diventa modella per il fotografo americano Edward Weston. Soprattutto da lui la Modotti impara a fotografare e con lui si reca in Messico nel 1923. Weston nel suo diario scrive che il volto di Tina «ha sofferto e ha conosciuto morte e delusione» e che la sua maturità «deriva dall’esperienza amara e dolce allo stesso tempo di chi ha vissuto intensamente, profondamente e senza paura».
Le foto di Tina Modotti sono esposte, fino al 5 ottobre 2014, nella splendida cornice della Corte medievale di Palazzo Madama a Torino. Questa Retrospettiva ricorda una donna coraggiosa che «bruciò» letteralmente in un’esistenza breve, appassionata e avventurosa. Così intensa che in molti parlarono per lei di «più vite in una».
Dopo un lungo oblio, Tina Modotti è oggi più che mai tornata alla ribalta. Fondamentali in questi anni sono stati i contributi del Comitato Tina Modotti e di Cinemazero di Pordenone. Sono stati pubblicati, inoltre, molti libri fotografici e biografie tra cui Tina di Pino Cacucci (Feltrinelli) e Tina Modotti. Fra Arte e rivoluzione di Letizia Argenteri (Franco Angeli).
«È impossibile – dice la Argenteri – per un biografo serio non essere sopraffatti dalla quantità di informazioni e documenti disseminati in vari Paesi e continenti del mondo, e dalle circostanze in cui la Modotti si trovò coinvolta».
Un’esistenza, la sua, che suscitò grandi amori e grandi odi, che fu al centro di campagne mediatiche (nel 1929 dopo l’assassinio del compagno, il cubano Julio Antonio Mella e molte altre volte ancora) ed entrò nella leggenda. Una vita più ricca di un romanzo, talora difficile da dipanare. «La vita – scrive Pino Cacucci nel catalogo della mostra edito da Silvana Editoriale – non è mai tutto il bianco da una parte e tutto il nero dall’altra, ma una sequenza di tonalità di grigio, un po’ come le immortali fotografie di Tina, che ci raccontano mondi proprio grazie alle infinite sfumature di luci e ombre, contrasti, particolari laceranti che inducono a riflettere sulla condizione umana».
La famiglia di Tina è, per tradizione, di sinistra e lei ha un’istintiva propensione per la libertà e la giustizia insieme con un forte senso di indipendenza. Nel 1927 si iscrive al Partito comunista in Messico, dove frequenta molti esponenti del mondo culturale tra cui i muralisti messicani che, attraverso l’arte, esprimono gli ideali rivoluzionari (Diego Rivera in un murale ritrae la Modotti e la pittrice Frida Kahlo nell’atto di distribuire armi). La militanza politica di Tina è parte fondamentale di una vita segnata da grandi passioni, pesanti lutti e frequenti, necessarie partenze. Gianni Pignat, fotografo, artista e ricercatore appassionato, nel suo saggio in catalogo la paragona a «una matrioska, tante vite una dentro l’altra».
Pittrice di vita
Tra le sue foto selezionate per questa Tina Modotti. Retrospettiva ve ne sono alcune di marcatamente ideologiche come la Donna con bandiera (una foto del 1928 diventata quasi un’icona) o quella che si intitola Marcia di campesinos. «La sua Grafex – scrive Cacucci in Tina – diventa un occhio spietato sulla miseria, sulla sofferenza, cattura la desolazione ma esalta anche la rabbia, la protesta organizzata».
Autentici capolavori sono le foto dei bambini e delle donne zapotec (indigeni del Sud del Messico), scattate nel 1929 a Tehuantepec. Queste donne svolgono le loro incombenze di ogni giorno, lavano i panni, portano anfore, accudiscono i figli: sono povere e bellissime, hanno la gioia negli occhi. «Tina aveva – dice ancora Letizia Argenteri – questa rara capacità di dipingere con toni intensi la vita anche nei suoi aspetti più disumani o ingiusti, rivolgendosi in particolar modo alle classi emarginate. Le fotografie di carattere sociale scattate in Messico lo attestano. Ma anche quando fotografava una pianta, un fiore o un sasso Tina sapeva essere pittrice di vita». Lei traduce in immagini le emozioni, fotografando con gli occhi e con il cuore.
Ci sono inoltre un gruppo di foto altamente simboliche come Mani di Assunta Modotti (1926), Fili del telegrafo, del 1924, quelle dei fiori, delle rose, delle calle (di una delicatezza che è pura poesia), quella delle mani del burattinaio che Riccardo Toffoletti – fotografo friulano che molta attenzione dedicò alla figura e all’opera della Modotti – interpretava come una metafora del potere.
In mostra a Torino ci sono anche alcune fotografie di Edward Weston, soprattutto ritratti di Tina di struggente intensità. Lei è bellissima, recita, legge poesie. Volendo azzardare un paragone delle foto del «maestro», tecnicamente perfette, con quelle dell’«allieva» si potrebbe dire che quest’ultima si distingue per una visione più poetica e soggettiva. C’è anche da aggiungere che Tina non è mai soddisfatta dei risultati delle sue foto (si lamenta di averne fatte molte di mosse o imprecise), anche se le sue immagini vengono pubblicate sui giornali o esposte in mostra. Come premessa a una di queste esposizioni, nel 1929 scrive: «Sempre, quando le parole arte e artistico vengono applicate al mio lavoro fotografico, io mi sento in disaccordo». E ancora: «Mi considero una fotografa, niente di più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo, è precisamente perché io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni». È sempre lei, poco oltre, a teorizzare il ruolo sociale della fotografia: «Proprio perché può essere prodotta solo nel presente e perché si basa su ciò che esiste oggettivamente davanti alla macchina fotografica, rappresenta il medium più soddisfacente per registrare con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti ed è da questo che deriva il suo valore di documento». Le sue foto sono poetiche ed eloquenti e ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, sono capaci di comunicare.
Gli ultimi anni
Nel 1930 Tina viene espulsa dal Messico con l’accusa (infondata) di aver complottato contro il presidente della Repubblica. Era considerata una «sovversiva» anche nell’Italia fascista e così raggiunge prima Berlino e poi Mosca, dove la militanza politica la assorbe completamente. La sua adesione al comunismo (ma in fondo anche il suo modo di fotografare) non possono prescindere dalla povertà vissuta durante l’infanzia, quando a Udine la famiglia vive «praticamente di carità» e Tina si prodiga per procurare il cibo per i fratelli. Povertà che tocca ancora con mano in California o in Messico. L’adesione politica è stata per Tina una grande passione, in nome della quale «arde» per tutta la vita. Le sue peregrinazioni continuano nella Spagna sconvolta dalla guerra civile (1936-1939), dove lavora nel Soccorso rosso spagnolo e conosce gli scrittori Ernest Hemingway e Antonio Machado e i fotografi Robert Capa e Gerda Taro. La morte in quegli anni di guerra è assai prossima alla vita e la stessa Taro muore facendo il suo mestiere, a 36 anni, a Brunete.
Dopo la Spagna, Tina torna a Parigi e poi a Città del Messico, nel 1939, sotto falsa identità. È una donna ancora giovane, ma stanca, provata, impaurita, ripiegata su se stessa. Forse sente che sta per volgere alla fine la sua esistenza bruciata troppo in fretta, schiacciata dagli eventi tumultuosi di una Storia che tracciava disegni più grandi. Quando Tina torna in Messico per l’ultima volta ha dentro di sé la consapevolezza di non poter più tornare indietro. Muore dopo una cena, da sola, su un taxi, il 6 gennaio del 1942: non ha ancora compiuto 46 anni. La sua tomba si trova a Città del Messico: è una lapide consunta, su cui il tempo ha inferto le sue stigmate. Reca incise parole profonde che il poeta cileno Pablo Neruda le ha dedicato: «Sorella, non dormi, no, non dormi / forse il tuo cuore sente crescere la rosa / di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa. / Riposa dolcemente, sorella». E Tina infatti non può morire «perché il fuoco non muore» come ha scritto Neruda.
La sede
Palazzo Madama di Torino, dove è allestita la mostra Tina Modotti. Retrospettiva è spettacolare e storicamente molto importante.
In passato in questo luogo si trovava una porta romana che divenne fortezza nel Medioevo e poi castello. Tra il Seicento e il Settecento le madame reali dei Savoia scelsero questo Palazzo come propria dimora e nell’Ottocento Carlo Alberto lo fece diventare sede del primo Senato del Regno d’Italia.
Oggi raccoglie collezioni d’arte del Medioevo, del Gotico e del Rinascimento (tra cui il celebre Ritratto d’uomo di Antonello da Messina) e del Barocco.
Fino al 28 settembre al piano nobile in Sala Senato è visitabile anche la mostra Tesori dal Portogallo (120 sculture, dipinti, opere di oreficeria provenienti da chiese, musei e raccolte private portoghesi).
Girando in questo meraviglioso e multiforme edificio ci si imbatte in un sant’Antonio in preghiera, con Gesù bambino in piedi davanti a lui, avvolto in un drappo blu. Il quadro è di Jan Miel (1599-1663), un pittore fiammingo che fece parte del gruppo dei pittori di corte a Torino.
INFO
Tina Modotti Retrospettiva
Corte medievale di Palazzo Madama Torino, Piazza Castello
Fino al 5 ottobre 2014
Tel. 011 4433501
www.palazzomadamatorino.it