Quaresima, pane e verità
Lungo come una quaresima, avere una faccia da quaresima, fare quaresima, dal carnevale alla quaresima, ecco solo alcune espressioni che un tempo erano di comune utilizzo e di facile comprensione per tutti. Oggi questi modi di dire sono «usciti» dal linguaggio, la qual cosa significa che è venuto meno o si è indebolito il mondo religioso di riferimento che li rendeva plausibili. Si può infatti ritenere che quando una parola viene espulsa dal linguaggio comune, la realtà da essa indicata ha in qualche modo perso di importanza nella vita di gran parte della gente.
Per quanto i predicatori, a partire dal rito suggestivo del mercoledì delle ceneri, si affannino a parlare della quaresima come di un tempo forte, connotato dal ravvedimento personale e da un conseguente serio cammino di conversione, è chiara l'impressione che si tratta invece di un tempo debole, anzi debolissimo. Per i più comincia e finisce senza che se ne accorgano. Ben pochi sono disposti a modificare le proprie abitudini di vita, anche quelle più semplici, legate all'alimentazione, di per sé segno esteriore di un cammino ben più profondo. Per motivi più di contaminazione di pensiero che di convinzione religiosa, alcuni cristiani, poi, attivano accorgimenti di carattere dietetico per moderare una vera e propria sregolatezza alimentare, con annesso corteo di malattie dedicate. In genere malattie da eccesso, non da mancanza di qualcosa, malattie che nel primo mondo sono aumentate in modo esponenziale con l'accrescersi del benessere e il cattivo uso dello stesso.
Ho letto, non ricordo dove, di uno studente delle superiori che, interrogato su che cosa sia la quaresima, ha risposto con queste precise parole: «Una pratica religiosa cristiana molto simile al ramadan». Segnale di un allarmante analfabetismo religioso, che pone confronti conoscendo poco e male i due termini accostati. Del ramadan , d'altra parte, la stampa parla ormai in modo diffuso, con abbondanza di informazioni e dettagli, lasciando sempre più in ombra, come termine di paragone sbiadito, il tempo quaresimale. Pur dovendo riconoscere che, nei primi anni di massiccia immigrazione musulmana nel nostro Paese, veniva spontaneo - anche senza entrare in merito alla diversità dei motivi determinanti il digiuno - considerare la distanza tra la serietà con cui era vissuta questa pratica da molti seguaci dell'islam e la tiepidezza o la latitanza corrispondente di gran parte del popolo cristiano. Anche il volto maggiormente comunitario del digiuno dei musulmani immigrati, a un Occidente sempre tentato di privatizzare ogni comportamento di carattere religioso, non ha mancato di suscitare meraviglia e, forse, indotto qualche riflessione.
Perché allora quaranta giorni di digiuno e di penitenza, nei quali siamo invitati a svestirci delle apparenze esteriori per restare concentrati sulla parola di Dio? La risposta è semplice: perché non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore. Detta così, la cosa appare alquanto provocatoria, soprattutto nel clima contemporaneo di sazietà incontentabile e di felicità più ostentata che goduta. La pancia piena non basta, l'abbondanza di beni esteriori non ci mette al riparo dalle inquietudini profonde dell'esistenza, e le cose che più contano nella vita non si possono comprare con i soldi. Se ci ingozziamo di «cose», al massimo possiamo stordirci, dimenticare per un po', anestetizzare i problemi, ma nulla di più.
Certo, il pane è importante, e chi non può averlo ne sente il bisogno e ne ha il diritto; ma per tutti, dico per tutti, c'è un viaggio verso la verità di se stessi che si può intraprendere solo nell'accoglienza della parola di Dio. Partiamo dunque per il santo viaggio, con l'orecchio aperto all'ascolto, leggeri e disponibili.