Quella dell'Afghanistan è tutta un'altra storia
Le prime elezioni democratiche nella millenaria storia dell'Afghanistan si terranno forse a settembre, forse a ottobre. Lo ha promesso l'attuale presidente provvisorio Hamid Garzai, dopo una visita a Washington. L'amico Bush preme perché siano realizzate il più presto possibile, per presentarle come un successo dell'intervento globale statunitense alla vigilia delle più importanti elezioni americane, che lo vedranno direttamente impegnato.
Ma i problemi da superare non sono pochi. Al momento in cui scrivo questo articolo, su dieci milioni di elettori afgani meno della metà sono stati registrati dalla commissione elettorale che lavora sotto la supervisione dell'Onu. C'è chi propone di macchiare il polpastrello dei votanti con inchiostro indelebile, per evitare brogli. Mancano i fondi per installare la complessa macchina elettorale perché i Paesi donatori - fra cui l'Italia - come al solito sono in ritardo o insolventi rispetto alle promesse. In più, gli sconfitti talebani e i fondamentalisti di ogni genere stanno moltiplicando gli attentati per sabotare la consultazione elettorale che marcherebbe una significativa tappa verso la stabilizzazione del Paese.
Molti giornalisti e politologi tendono ad assimilare l'Afghanistan all'Iraq, sottolineando delle analogie. Il governo centrale controlla solo una ristretta circonferenza di territorio attorno alla capitale, Kabul, mentre il resto del Paese è ritagliato fra i diversi signori della guerra a base etnica e le loro milizie. Basta dire che l'esercito nazionale conta su diecimila uomini, mentre le milizie, che avrebbero dovuto essere sciolte e non lo sono state, si avvicinano ai centomila armati. La guerriglia talebana trova rifugio nelle zone tribali a cavallo del confine con il Pakistan, dalle quali si infiltra nel territorio afgano per improvvisi attacchi.
Osama Bin Laden è ancora vivo
Il principale obiettivo dell'intervento alleato dell'ottobre 2001, il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, è probabilmente ancora vivo, sfuggito alle ricerche, al pari del suo protettore afgano, il mullah Omar.
Le analogie con l'Iraq esistono, ma un paragone troppo spinto non mi convince. Per molte ragioni. La liberazione di Kabul dal regime talebano, a differenza della liberazione di Bagdad, non è stata opera di truppe straniere ma di truppe autoctone, dell'alleanza del Nord guidata dai tagiki ed erede del leggendario comandante Massud (assassinato da Al Qaeda alla vigilia dell'attacco aereo a New York dell'11 settembre 2001). Il mosaico etnico è in Afghanistan, anche più accentuato che in Iraq, ma i vari capi locali, pur gelosi delle proprie prerogative, hanno tutti fatto parte dell'alleanza anti-talebana, quindi non possono cambiare di campo.
L'attuale presidente provvisorio Hamid Garzai, che con ogni probabilità vincerà le prossime elezioni, è certo ben visto a Washington ma non è una semplice pedina di Bush. Ha un passato di tutto rilievo come capo-mujaheddin nella resistenza contro l'occupazione sovietica (dal 1979 al 1992) ed è stato eletto presidente provvisorio dalla loya jirga, il gran consiglio dei notabili e dei capi tribali.
L'ho incontrato due volte in conferenze-stampa e mi ha fatto un'ottima impressione. Elegante in un sobrio abbigliamento tradizionale afgano, si muove con l'autorevolezza dovuta a un notabile, ma parla un ottimo inglese e sa coniugare modernità politica con islamismo moderato. Tutt'altro che un uomo di paglia degli occidentali.
A differenza dall'Iraq, le forze straniere non sono percepite come forze di occupazione e anche il loro numero non è eccessivo: diecimila sotto l'egida dell'Omu (soprattutto statunitensi) impegnati direttamente contro la guerriglia talebana, più seimilacinquecento della Nato (fra cui circa trecento italiani) come forza di pace attorno a Kabul. Non c'è paragone con gli oltre centocinquantamila uomini dispiegati, con scarso effetto, nell'Iraq.
In Afghanistan - ed è questa la differenza più marcata con l'Iraq - le forze di stabilizzazione, pur in mezzo a mille difficoltà e problemi, sembrano prevalere sulle forze di destabilizzazione. Lo stesso ex re, l'ultraottantenne Zaher Shah, dopo trent'anni di esilio vissuti a Roma, è ritornato al suo palazzo reale nei dintorni di Kabul, non per rivendicare un trono, ma per contribuire alla ricostruzione morale del suo Paese come figurarappresentativa dell'unità nazionale, al di là delle differenze etniche, che pure esistono.
Certo, i problemi sono molti e difficili da dipanare. A quelli politici abbiamo già accennato. Sul piano economico, la ricostruzione resta quasi tutta da fare, dopo oltre vent'anni di guerre che, come ricordava il comandante Massud, erano costate la vita a un milione di persone. Due milioni di rifugiati sono ritornati, ma molti si accampano ancora attorno a Kabul sopravvivendo di assistenza internazionale.
Oltre undici milioni di mine
Il terreno afgano è disseminato da oltre undici milioni di mine, la più alta intensità del mondo, che continuano a fare vittime, soprattutto fra i ragazzi. L'economia informale si nutre della coltura e del commercio dell'oppio che impingua le tasche - e gli arsenali militari - dei signori della guerra locali.
Il mondo ricco non mantiene le sue promesse: delle generose somme stanziate nelle conferenze di Bonn e di Tokio nell'euforia della vittoria sui talebani, solo il trenta per cento è arrivato. Anche i diritti umani danno a desiderare se varie associazioni internazionali hanno intimato al governo afgano e ai militari statunitensi di rivelare il luogo delle carceri segrete di cui si suppone l'esistenza e nelle quali sono rinchiusi almeno quattrocento prigionieri.
I problemi restano, ma le elezioni possono diventare un traguardo importante verso l'unificazione del Paese e la legittimazione democratica dei suoi dirigenti. Anche, possono apparire, pur nelle forti differenze che abbiamo indicato, un esempio per il più turbolento e dissestato Iraq.