Quello sguardo bambino sul mondo
Dicendo «grazie» si avverte subito la nobiltà e la bellezza di questa parola, si sente profumo di verità e libertà, si capisce che essa racconta il meglio di noi e il meglio degli altri. Dietro questa parola si cela tutto il bene che abbiamo saputo accogliere e che altri hanno voluto offrirci, anche a costo di sacrifici. Per quanto non poche persone proclamino di «non dover dire grazie a nessuno» e orgogliosamente si vantino di essersi fatte da sole, per quanto oggi dilaghi l’individualismo e l’idea che ciascuno è un’isola ben separata e indipendente dagli altri, in realtà nessuno si è fatto da solo, ciascuno di noi è il frutto maturo, saporoso e irripetibile di tutti i semi buoni che ha ricevuto.
Se consideriamo con attenzione la nostra vita, ci accorgiamo di aver ricevuto tanto: affetto, premure, occasioni per imparare, compagnia, esempi positivi, incoraggiamenti, perdono, giusti rimproveri, stimoli a migliorare, consolazione, bellezza da godere, la fede stessa. E ancora prima abbiamo ricevuto la vita, la capacità di amare, le specifiche qualità che compongono il nostro essere, la magnificenza del creato. Diventa impossibile non esprimere gratitudine: essa urge sulle labbra come una sorgente che non può restare imprigionata nel silenzio. «Il midollo del mondo», così la definisce il poeta Davide Rondoni. «Certo è vero, la comunità umana è mossa dalla logica del do ut des e da molti interessi di varia natura, ma sono persuaso che senza gratitudine il mondo sarebbe già finito. La prova è che quando in un’amicizia o in un amore essa scompare finisce ben presto anche il rapporto. Per quanto mi riguarda, penso che il modo migliore di raccontare la mia vita sarebbe quello di esprimere milioni di “grazie”. I più sentiti li rivolgo soprattutto alle persone che mi hanno mostrato e ancora mi mostrano che la vita è un’avventura che vale la pena di essere vissuta: penso in primo luogo ai miei genitori e ad alcuni maestri come don Luigi Giussani e, in campo letterario, a poeti come Mario Luzi e Giovanni Testori».
Ciascuno ha i propri «grazie» da raccontare: lo scrittore Erri De Luca è riconoscente al padre e alla madre che gli hanno dato «affetto, istruzione e salute», mentre il professor Silvano Petrosino, docente di Semiotica all’università Cattolica di Milano, propone un lungo elenco che vede in prima fila la moglie, i figli, i genitori, alcuni insegnanti del liceo, gli amici. «Soprattutto quando si è ragazzi – aggiunge – è facile non accorgersi del bene che le persone ci offrono, si pensa che tutto ci sia dovuto, si dà per scontata un’infinità di cose e di affetti: la gratitudine, quella vera e profonda, matura e cresce nel tempo; sono sempre stato convinto che, insieme alla memoria del bene ricevuto, sia uno dei segni più evidenti di un animo nobile».
La bellezza della dedizione
Questa stessa nobiltà l’ha manifestata il cardinale Angelo Scola che il 25 settembre scorso, in occasione dell’ingresso nella diocesi milanese, ha concluso la celebrazione eucaristica con un elenco di «grazie» lungo due pagine. Oltre al Papa, ai fratelli nell’episcopio, all’amata Venezia e ai milanesi, ha voluto ringraziare le persone attraverso le quali la Provvidenza lo ha accompagnato; tra gli altri: i genitori, il fratello, i familiari, gli amici, i sacerdoti della sua infanzia, e poi tre «padri e maestri nella fede capaci di vivere tutte le dimensioni del mondo»: don Luigi Giussani, Hans Urs von Balthasar e il beato Giovanni Paolo II, riconosciuti come «dono immeritato».
La sorgente della gratitudine, ciò che spinge queste persone e ciascuno di noi a esprimerla è – se ci pensiamo bene – uno sguardo «bambino» sul mondo, ossia lo sguardo capace di stupore, capace di meravigliarsi – ogni volta – di fronte alla bontà di ciò che si riceve e delle persone che ce lo stanno offrendo. «In fondo, quando ringraziamo – rileva Petrosino – noi proviamo anche lo stupore di essere voluti e amati per ciò che siamo. Mentre riceviamo qualcosa di buono, infatti, noi ci sentiamo amati, oggetto d’amore. Chi fa questa esperienza, a mio parere, fa esperienza del paradiso». E fa anche, e contemporaneamente, esperienza della gratuità: diciamo «grazie» perché vediamo risplendere nell’altro la bellezza di una dedizione, un impegno, un desiderio di dare (anche a costo di sacrifici) che non appartengono alla logica del do ut des, perché ci rendiamo conto di ricevere qualcosa di buono che non ci è dovuto, un «di più» importante per la nostra vita che ci viene offerto per il nostro bene, non per i nostri meriti o per ottenere in cambio qualcosa.
Osserva Rondoni: «Il “grazie” è sempre legato al “gratis”, tanto è vero che l’atto che più di ogni altro suscita riconoscenza è il perdono. Quando una persona viene perdonata è profondamente grata perché riceve un atto d’amore sommamente immeritato, gratuito».
Anche il biblista monsignor Rinaldo Fabris mette al centro della sua riflessione la gratuità, e ringrazia anzitutto i genitori: i valori essenziali della vita – la sobrietà, la voglia di lavorare, l’onestà, la trasparenza nei rapporti umani, la fede – li ha ricevuti dalla loro testimonianza concreta e silenziosa. Si dice grato anche a molti amici, persone singole e gruppi, che continuano ad accompagnarlo nella vita con fedeltà: sono relazioni che lui definisce «basate sulla gratuità», cioè sul dono che non crea dipendenza ma apre a libertà. E amplia il discorso aggiungendo: «La gratuità nei rapporti umani, che suscita la gratitudine, vive in me profondamente intrecciata alla dimensione religiosa, ossia all’esperienza della vita come dono di Dio. L’esperienza umana mi aiuta a vivere con più intensità quella religiosa, e quella religiosa mi offre un orizzonte più ampio e vero nel quale vivere la relazione con gli altri».
Certo, bisogna riconoscere che non poche persone sembrano proprio in difficoltà quando devono dire «grazie»: la ragione, secondo Petrosino, è che compiere questo atto significa accettare di non essersi fatti da sé, accettare di accogliere, in totale passività, qualcosa che non si può restituire: e ciò, per alcune persone, è insopportabile. «Ricordo un anziano docente universitario che nel corso di un dibattito, mentre un relatore sosteneva che “Gesù salva tutti”, esclamò: “Io non voglio essere salvato da nessuno!”. Questa frase racconta il perenne e tragico desiderio di totale autonomia dell’uomo. Gesù invece è l’archetipo dell’uomo grato perché vive la vita contento che il Padre ci sia, contento di dipendere e ricevere tutto da Lui. Gesù è l’uomo che accoglie il fatto di non essersi fatto da sé e vive questa condizione non nella forma del limite e della castrazione (come direbbe Freud) ma nella forma della gioia e della pace». Rondoni aggiunge un ulteriore elemento di riflessione: «Sono convinto che, in realtà, tutti provino gratitudine. Chi non la esprime è perché la vive superficialmente, non ci pensa, non fa di quell’esperienza un elemento di coscienza e di giudizio e quindi essa non diventa atteggiamento forte e significativo della quotidianità, ma resta un sentimento passeggero anziché diventare il midollo della vita».
Ma è possibile educare alla gratitudine? E qual è il modo migliore? Monsignor Fabris vede nelle relazioni familiari costruite sulla gratuità il grembo nel quale i bambini imparano. È coltivando queste relazioni che i piccoli diventano poi capaci di aprirsi ad accogliere anche una gratuità più grande, quella di Dio, che è la fonte di tutte le relazioni interumane gratuite: «Non a caso nel linguaggio religioso si parla di “grazia”: Dio è fonte della grazia, intesa non nel senso di un singolo dono particolare, ma della grazia per eccellenza che è la vita. Accoglierla – si badi bene – è il cuore dell’esperienza religiosa, tutto il resto viene dopo.
Purtroppo la nostra società, che vive di prestazioni, interessi economici, scambi e contratti, non aiuta l’educazione alla gratuità e non agevola la gratitudine».
Poiché la maggior parte delle persone tende a dare tutto per dovuto, ciò che più frequentemente educa, secondo Petrosino, è, purtroppo, la sofferenza. Quando, ad esempio, si attraversa una malattia dolorosa, ci si accorge di quanto abbiamo dato per scontato: respirare, deglutire, camminare, muovere gli arti; atti cui prima neppure si badava, improvvisamente vengono considerati doni preziosi. Decisivo e imprescindibile, per Rondoni, è invece l’esempio: un bambino diventa capace di ringraziare perché cresce attorniato da adulti che fanno della gratitudine uno stile di vita, adulti felici di esprimerla agli altri e a Dio per il dono dell’esistenza, del respiro che non si sono dati da soli.
La gratitudine, che fiorisce dallo stupore e dalla gratuità, che implica l’accettazione dei propri limiti e della propria incompletezza, che attesta la presenza in ciascuno di noi dei semi offerti dagli altri, rimanda anche a un’altra cosa: i «grazie» che ci diciamo gli uni gli altri, e rivolgiamo a Dio, raccontano che a farci vivere sono i legami buoni, i legami di agape, di amore fraterno. Che sono da nutrire, proteggere, custodire. «In principio», a fondamento della vita, c’è il legame: in Dio, che è Trinità, e in noi, creati «a sua immagine e somiglianza». La storia della salvezza è proprio la storia del legame buono e indissolubile che unisce Dio a noi.
Lo stupore del «Magnificat» e il significato dell’eucaristia
Che cosa ho fatto per meritare questo?
L’eucaristia, fonte e culmine dell’esistenza cristiana, è una parola che deriva dal greco eucharistein, che significa «rendere grazie»: la messa è «rendimento di grazie» ma, osserva monsignor Rinaldo Fabris, «molti fedeli non mi pare ne abbiano consapevolezza. Perché questa consapevolezza possa maturare e crescere è importante porre sempre al centro del cammino di iniziazione cristiana l’idea della grazia, che fonda e precede le verità da credere e il codice morale da osservare, e far sperimentare ai piccoli, ma anche agli adulti, la gratuità.
Il bambino che, ricevendo un dono, domanda: “Che cosa ho fatto per meritare questo?” e si sente rispondere “niente”, entra nella logica della grazia. Questa è logica di Dio, e di Gesù che la rivela con i gesti e le parole. Pensiamo alla parabola del padre buono: il figlio, che ha sperperato tutti i beni, torna a casa e il padre lo accoglie unicamente perché è padre, non perché il figlio si pente e si è preparato un bel discorso. L’amore del Padre è gratuito. Da qui nasce la gratitudine». E da qui nasce anche il Magnificat di Maria, la bellissima preghiera di Gesù («Ti rendo lode, o padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»), il rendimento di grazie espresso dai santi e dal popolo di Dio nel corso dei secoli.
Proprio pensando a coloro che ci hanno preceduto nella fede, don Divo Barsotti scrisse una pagina nella quale si respira la sua esperienza di gratitudine: «La tradizione della Chiesa non è soltanto la continuità di un insegnamento teologico, è anche la continuità di una vita che ci lega ai primi uomini, a coloro che credettero in Dio, a coloro che per primi riconobbero Cristo, a coloro che per primi lo seguirono. I santi non stanno soltanto nelle nicchie per essere onorati, sono veramente i nostri fratelli e, prima che fratelli, padri; noi viviamo la loro vita, noi viviamo della loro eredità. Essi ci partecipano la loro stessa esperienza religiosa, essi rivivono in noi. Noi crediamo di essere nostri, crediamo di essere originali, crediamo di dovere a noi stessi e magari soltanto a Dio la nostra risposta a Lui… la dobbiamo a tutti coloro dai quali dipendiamo. Pensate a quello che è stato nella nostra vita l’insegnamento, la presenza dei nostri genitori, dei nostri fratelli più grandi. Ora essi sono forse in Paradiso, ma non sono soltanto in Paradiso, continuano veramente in noi la loro medesima vita; vi è un qualcosa di loro che non è morto, cioè non è passato soltanto nel mondo di là, ma rimane nel mondo presente».
Il prodigio della vita
Così scriveva Paolo VI in Pensiero alla morte, di cui pubblichiamo una breve sintesi: «Vorrei avere una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita. Penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati. Sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle molte bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura. Quel mondo, fatto per mezzo di Lui, è stupendo. Grazie, o Dio, e gloria a Te, o Padre!».