Riaperta al pubblico la Versailles d’Italia
L’inaugurazione della Reggia, che segue quella dei giardini storici avvenuta lo scorso giugno, è una tappa fondamentale del progetto di recupero architettonico e paesaggistico dell’intero patrimonio della Venaria Reale, la grande corte regale del Piemonte realizzata fra il XVII e il XVIII secolo dai più grandi architetti dell’epoca (Amedeo di Castellamonte, Michelangelo Garove, Filippo Juvarra e Benedetto Alfieri) come luogo di caccia e di piacere dei sovrani sabaudi. Il progetto «La Venaria Reale», avviato nel 1997, è tra i più rilevanti programmi di conservazione e valorizzazione di un bene culturale a livello europeo: più di 50 cantieri attivati, 800 persone impiegate, 100 progettisti, oltre 100 tecnici ed esperti scientifici, 145 mila metri quadri di stucchi e intonaci, 25 mila di pavimentazioni interne, 5 mila di affreschi e decori, 3 mila ettari di parco circondati da 35 chilometri di muro di cinta, per un investimento complessivo di 200 milioni di euro.
«La Reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea» è la prima delle esposizioni temporanee che, progressivamente, andranno a integrare i contenuti del percorso di visita perma-nente.
Dal 13 ottobre 2007 al 30 marzo 2008 la mostra farà luce sulla storia di una dinastia protagonista delle vicende politiche e militari europee dell’epoca, presentandone le realizzazioni architettoniche, le committenze artistiche e la vita di corte, attraverso più di 400 opere d’arte provenienti da quaranta prestigiosi musei internazionali, oltre che da 20 collezioni e musei italiani e dalle raccolte pubbliche del Piemonte. Di particolare fascino è la ricostruzione della vita di corte, affidata alla testimonianza della più sofisticata arte cinematografica. Cinque filmati multimediali, realizzati dal regista inglese Peter Greenaway, restituiranno al visitatore momenti di vita dei sovrani e dei loro cortigiani: dai riti della caccia alle feste, dalla vita privata ai grandi momenti pubblici.
Savoia in rosa
Estremamente interessante la sezione espositiva dedicata alla «sovranità al femminile». Durante il Seicento lo Stato sabaudo fu infatti guidato per ben due volte da una donna: Maria Cristina di Borbone (dal 1637 al 1663) e Maria Giovanna Battista di Nemours (dal 1675 al 1684), passate alla storia come le due Madame Reali. Maria Cristina, figlia di Enrico IV, re di Francia, fu donna bellissima, affascinante, galante, volubile, pur essendo in certe cose molto ostinata, diffidente e gelosissima della propria autorità. Come tante altre principesse dell’epoca, andò sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia senza neppure conoscere il marito, i parenti e il popolo del quale doveva diventare signora. Fortunatamente per lei, tutto andò nel migliore dei modi: il marito le riservò un amore esclusivo e possessivo, rendendosi schiavo dei suoi voleri, anche nei più seri affari di Stato. E lei, nonostante il temperamento passionale e un’innata inclinazione alle avventure amorose che non giovò alla sua reputazione, gli fu compagna affezionata. Ebbero sette figli.
Vittorio Amedeo I moriva prematuramente nel 1637 in circostanze tali da far correre voce che fosse stato avvelenato per istigazione del cardinale Richelieu che, volendo sottomettere completamente il Piemonte alla Francia, poteva aver visto in lui un ostacolo da sopprimere, tanto più che lo Stato sabaudo avrebbe potuto essere retto da una principessa francese. «Madama Reale» tenne testa all’influenza dell’eminenza grigia grazie anche a due consiglieri di provata fede: il conte Filippo d’Agliè e il gesuita padre Pietro Monod. «Il primo – scrive lo storico torinese Luigi Cibrario – ne signoreggiava il cuore; il secondo ne regolava la coscienza, e tutti e due pretendevano reggerne la politica». Cristina, comunque, non era tipo da farsi comandare da chicchessia. Non solo resistette alle pressioni francesi, ma riuscì anche a contenere le ambizioni dei due cognati, il cardinale Maurizio di Savoia e il principe Tommaso di Carignano, che, spalleggiati dalla Spagna, sobillarono contro di lei una parte della popolazione. Il contrasto degenerò in una guerra civile tra «madamisti» e «principisti», conclusa nel 1642 con un accordo. Nel 1648 il figlio di Cristina, Carlo Emanuele II, diventava maggiorenne e assumeva formalmente la reggenza, ma di fatto la duchessa continuò a tenere le redini del potere fino al 1662, cioè fino alle nozze dell’erede con Francesca d’Orleans.
Negli ultimi anni della sua vita, Cristina si dedicò alla fede con la stessa esuberanza con cui in gioventù si era dedicata alle feste e alle avventure galanti. Faceva esercizi spirituali almeno cinque volte all’anno «battendosi con la disciplina, portando il cilicio e indossando una corona di spine. Ascoltava, sempre in ginocchio, quindici messe di seguito, poi si gettava a terra sulla soglia della chiesa, e voleva che tutte le monache le passassero sul corpo in processione». Moriva nel 1663, forse per effetto dei suoi eccessi di mortificazione, lasciando a Torino importanti monumenti religiosi come i conventi di San Francesco da Paola e di Santa Teresa, la chiesa e il monastero di Santa Cristina.
La seconda «Madama Reale»
Nel 1663 Carlo Emanuele II perdeva, oltre alla madre, anche la moglie. Si risposava nel 1665 con Maria Giovanna Battista, la seconda «Madama Reale»: i festeggiamenti si tennero alla Reggia di Venaria (il cui cantiere era stato avviato nel 1659) con la rappresentazione della tragedia L’Alcesti o sia l’Amor sincero, scritta per l’occasione da Emanuele Tesauro. Quando anche il duca si spense, nel 1675, Maria Giovanna, descritta da molti come una donna dal carattere freddo, autoritario e animata da grandi ambizioni, accettò di assumere la reggenza del ducato di Savoia fino alla maggiore età del figlio, Vittorio Amedeo II.
Era stata una moglie virtuosa ma, rimasta vedova, si concesse vari amanti molto più giovani di lei. Amori a parte, fece sì che il ducato godesse di un periodo di pace e miglioramenti interni. Alla sua iniziativa si dovettero, tra l’altro, l’istituzione dell’Accademia Reale di Torino, quella del Consiglio cavalleresco per decidere sui casi di onore e quella del Collegio dei Nobili, realizzato dai gesuiti. Sotto la sua reggenza si celebrarono alcune delle feste più sontuose della corte sabauda, tra cui gli zapatos, incentrati sullo scambio di doni (in origine nascosti in una scarpa, zapato in spagnolo). Lo zapato si teneva per lo più il 6 dicembre, giorno di San Nicola, in modo del tutto simile a quanto accade oggi il 25 dicembre. A corte i regali erano in genere gioielli o oggetti preziosi, ma potevano anche essere quadri o scritti di diverso genere.
Il desiderio di potere di Maria Giovanna non si fermò al compimento della maggiore età da parte del figlio, nel 1684: «Madama Reale» cercò di far trasferire Vittorio Amedeo II in terra portoghese combinando il suo matrimonio con la cugina Isabella di Braganza, figlia del re del Portogallo; l’obiettivo era di rimanere sola a capo dello Stato, sapendo di poter contare anche sulla benedizione del re di Francia, Luigi XIV. Ma Vittorio Amedeo II intuì il piano della madre e, spinto dai suoi ministri, con una specie di colpo di Stato, la dichiarò priva di ogni autorità. Lasciata in disparte dalla politica, Maria Giovanna si dedicò all’arte: per suo esplicito ordine molte vie del capoluogo subalpino vennero allargate, furono costruite chiese (nel 1678, tra l’altro, fu ampliato il santuario di Maria Consolata e, nel 1682, fu completata la cupola della Sindone, entrambi opera di Guarino Guarini) e fu ammodernato Palazzo Madama, su progetto di Filippo Juvarra. Proprio a Palazzo Madama, riaperto al pubblico il 16 dicembre scorso dopo diciannove anni di chiusura per restauri, entrambe le «Madame Reali» avevano collocato la sede delle loro reggenze.
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